Il referendum e i suoi sottintesi

di Stefano Folli

Molti si meravigliano dello scarso interesse verso i referendum sulla giustizia, a meno di tre settimane dal 12 giugno. Trattano temi che dovrebbero essere al centro della pubblica attenzione, essendo il mal funzionamento della macchina giudiziaria in cima all’agenda delle lamentele da parte dei cittadini. Il che non è certo un mistero. Invece, ora che è arrivato il momento di dare una spinta al Parlamento, di fronte al quale è già all’esame la riforma Cartabia, ecco la nebbia in cui sfumano tutti i buoni propositi. In realtà non assistiamo a quasi nulla di nuovo, salvo un’indifferenza persino maggiore che in passato. Come sempre accade, il referendum pone due ordini di problemi: uno di sostanza, che tocca il merito dei quesiti; e uno politico che investe il quadro generale, soprattutto nell’ambito della maggioranza. Sul primo punto – il merito dei problemi evocati dall’iniziativa referendaria – il fronte del “sì” è variegato, espressione disordinata della società. C’è il comitato promotore, ci sono i radicali e i leghisti, nonché un arcipelago di professori, intellettuali, professionisti, liberali senza partito, anche politici o ex politici che ritrovano un pezzetto della loro gioventù. Manca finora la mobilitazione che in altre occasioni lasciava presagire la vittoria (ma talvolta si trattava solo di un’illusione). Anche nel 1974, quando si votò per il divorzio, il percorso apparve tormentato. In quel caso c’era da difendere la legge Fortuna-Baslini, un socialista e un liberale, e a guidare la corsa c’era un personaggio carismatico, del tutto anomalo nella società politica, qual era Marco Pannella. Non fu semplice neanche allora scuotere la pigrizia del sistema: il Pci, ad esempio, si mosse solo all’ultimo e non condivise il palco “laico” di piazza del Popolo. Si avvertiva peraltro un’atmosfera elettrica oggi carente. Certo, il tema del divorzio era facilmente percepibile: Sì o No. Viceversa la materia della giustizia è complessa e il nodo gordiano si presta poco al taglio netto, come fa notare Sabino Cassese sulla Stampa. Tuttavia l’autorevole costituzionalista non ha dubbi sulla scelta: voterà “sì” ai cinque quesiti perché la paralisi dell’impianto giudiziario è intollerabile, per responsabilità che sono anche della magistratura e per la buona ragione che la riforma Cartabia, frutto di un difficile compromesso, ha bisogno di una scossa. La pensa allo stesso modo Claudio Petruccioli, uomo di sinistra oggi lontano dall’attività di partito, ma tra i fondatori dell’associazione Libertà Eguale: “C’è anche una questione di carattere politico – dice al Riformista – negli ultimi decenni sono stati alterati i rapporti tra i poteri”.

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