La batteria ad alga ci permetterà di ricaricare lo smartphone con la fotosintesi
Ad aggiungere valore alla sperimentazione il fatto che sia avvenuta in ambiente domestico e dunque non-controllato come può essere in laboratorio. Ciò vuol dire che la batteria è stata esposta al naturale ciclo quotidiano di luce ed è stata soggetta alle variazioni di temperatura che si hanno in un ipotetico ambiente dove questa tecnologia potrebbe trovare applicazione.
I precedenti
La generazione di corrente tramite batteri non è una novità: le prime pile a combustibile microbiologico sono state sviluppate a partire dagli inizi del ‘900. In questi casi però si trattava di organismi alimentati con zuccheri o altri composti, mentre la sfida del team di Cambridge era quella di sfruttare la fotosintesi. Quindi trasformare la luce in sorgente energetica e poi convogliare la corrente verso un apparato capace di sfruttarla.
“Tutti gli organismi fotosintetici sono capaci di scomporre le molecole d’acqua grazie alla luce, generando ossigeno, elettroni e protoni. L’ossigeno viene rilasciato nell’aria; i protoni e gli elettroni con l’anidride carbonica formano nuovi zuccheri o altri prodotti. I nostri sistemi permettono di prendere alcuni di questi elettroni e incalanarli in un elettrodo per produrre corrente”, puntualizza il ricercatore.
Il passaggio di conduzione finale – attraverso un elettrodo – è stato l’oggetto di studio di questi ultimi dieci anni perché il trasporto nello spazio intracellulare ha rappresentato storicamente la sfida più ardua. Bisognava individuare un “trasportatore” adatto, uno sherpa che reggesse le difficoltà del percorso.
“Alla fine abbiamo scoperto che con un anodo in alluminio, il cianobatterio formava colonie attive e quindi un biofilm. E vi abbiamo abbinato un secondo elettrodo costituito da una lamina in carbonio e nanoparticelle di platino affinché funzionasse come catodo”, spiega Bombelli. “Il nostro trasportatore era frutto della combinazione dell’alluminio e i batteri che prolificano nella soluzione liquida”.
E così si è ottenuta una batteria con superfici trasparenti, che pesa solo 50 grammi, è alta 6 centimetri e contiene circa 14 ml di soluzione acquosa a base di Synechocystis. La tensione elettrica è di circa 700/800 millivolt, mentre l’intensità è di pochi microampere. Ovviamente una comune pila AA viaggia a 1,2 volt e dispone di più cariche elettriche, ma dopo un certo periodo esaurisce la sua capacità operativa. Una pila a cianobatterio può funzionare per più di un anno.
Un progetto dal futuro brillante
“Arm ci ha fornito un chip normalmente usato nel settore Internet-of-things adattando il voltaggio alla nostra pila, mentre adesso la nostra prossima sfida e di testare direttamente un sensore IoT di mercato, adattandoci noi alle sue esigenze tecniche”, dice il biochimico italiano. Il team sta pensando a piccoli visori, mini-display, che mostrano informazioni di vario tipo e hanno bisogno di soli 3 volt.
La prospettiva è di intervenire probabilmente sia sulle dimensioni della batteria che sulla ricerca di un cianobatterio più efficiente o comunque più adatto alla tipologia di sensore. Ad esempio ce ne sono alcuni in natura che resistono meglio alle alte temperature. “Poi sappiamo che il voltaggio non dipende dalla quantità di liquido, mentre l’intensità di corrente sì. Per incrementare il voltaggio bisognerà mettere più sistemi in serie montati vicini”, aggiunge Bombelli.
Le variabili in gioco sono tante così come le opzioni. “Noi abbiamo puntato sul Synechocystis che è stato isolato nel 1968 a Oakland sfruttando l’acqua di un lago del Nord America e che storicamente è il più diffuso nei laboratori, ma è solo il punto di partenza perché ciò che contava era scoprire il meccanismo per impiegare la corrente generata”.
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