Come la guerra di Spagna
Domenico Quirico
La guerra di Spagna e la guerra in Ucraina si assomigliano. Sono senza dubbio due guerre giuste contro un sopruso, una violenza: ovvero hanno messo di fronte un regime democratico aggredito a dittature, (nel 1936 accorsero in appoggio dei golpisti locali); combattenti stranieri scesi in campo in sostegno dell’uno e dell’altro campo; la prova generale di un conflitto più grande tra sistemi politici, ideologici e territoriali decisi a contendersi il mondo. Di tanto in tanto nella Storia accade di pensare di essere, immobili, al centro di una sconfinata distruzione. A costringerti a intervenire non è solo la paura, la vergogna di esser separato da altri uomini che soffrono, l’angoscia che ti prende di fronte alla forza bruta delle moltitudini e dei loro astuti burattinai. La guerra di Spagna, forse una delle guerre più “letterarie” e raccontate, fu uno di questi momenti. Per certi aspetti anche l’Ucraina, in circostanze storiche diverse, lo è. L’odio spinge l’uomo alla guerra più selvaggia e alla demolizione della immagine umana. In circostanze come queste un dato di fatto è qualunque cosa porti gli uomini su un terreno comune. È il momento in cui gli intellettuali, se non fanno nulla, pur avendo i mezzi per impedire o denunciare un massacro, un genocidio, una prepotenza contro i diritti dell’uomo, si accorgono che possono perdere la loro anima, abdicare a ciò che sono. Parlo di intellettuali, scrittori poeti filosofi, non dei giornalisti. A cui spetta invece per obbligo il compito, pericoloso e puntuale, di raccontare giorno per giorno la cronaca di quella realtà.
Nel 1936 molti intellettuali gettarono via la macchina da scrivere e partirono per la Spagna, a combattere, alcuni, nelle file degli aggrediti, da Hemingway a Malraux a Orwell, molti di più come Mauriac, per condividere quella tragedia con le vittime. Combatterono e persero quella guerra. Al ritorno, dopo averla vissuta, scrissero i capolavori che servirono per capire, e a sconfiggere quella rassegnazione di fronte al Male per cui l’uomo diventa, al momento buono, disponibile per ogni sorta di violenza. E preparare le ragioni della nuova battaglia che poco dopo li avrebbe ritrovati sui fronti della guerra mondiale. Anche novanta giorni fa gli intellettuali dell’Occidente si sono schierati nella quasi totalità a favore degli aggrediti, degli ucraini. Ma c’è una differenza, evidente e ricca di conseguenze, si direbbe un più generale segno dei tempi. A parte qualche frettolosa visita nella zona dell’Ucraina non travolta dalla guerra, visita “tecnica”, il tempo necessario per un reportage letterario, tutti si sono affannati a scriver subito il capolavoro, il racconto sulla guerra allo stesso tempo necessaria e impossibile, blasfema perché stupratrice del sacro suolo europeo. Alcuni libri sono usciti quasi in diretta, senza che si sappia come andrà a finire, chi saranno i vincitori e i vinti. Invece che a Kiev o a Odessa li si incontra, gli intellettuali, tutte le sere negli studi delle tv europee e americane a descrivere una guerra che non hanno visto, a fornire motivazioni all’invio di armi per prolungare la resistenza e annientare eventualmente il tiranno. Fu un interrogativo anche della guerra di Spagna, i totalitarismi italiano e tedesco lo risolsero armando il “tercio” di Franco per provare le loro armi nuove e micidiali, i repubblicani dovettero accontentarsi, vista la viltà delle democrazie di allora, soprattutto della assistenza non proprio disinteressata di Stalin. Ma verrebbe da dire che l’appello ad aiutare gli aggrediti ha un diverso valore e forza se fatto dal fronte dell’Ebro, allora, e del Dnepr, oggi, e non dal salotto tv. A ragione un noto filosofo francese a chi gli chiedeva conto di questa “diserzione” rispetto ai loro “antenati” ha risposto che “si sente più a suo agio con la tastiera di un computer che con una mitragliatrice…”. E nessuno chiede certo agli intellettuali di arruolarsi nei battaglioni di Zelensky. Il problema semmai è nella legittimità, e efficacia, di descrivere una guerra, analizzarla, invocarla senza averla mai provata nella sua incalzante brutalità. In guerra c’è poco spazio per la fantasia, provarla fa girare la testa, dubitare delle stesse nostre sensazioni, ci si sente colpevoli, sono i morti che comandano, che ti interrogano, si dialoga con le ombre. È nel primo morto che si incontra, in un fosso, riverso in un campo o tra le macerie, che è tutto il senso della faccenda.
È un dibattito antico: come si può legittimamente creare nell’opinione pubblica la consapevolezza di una “guerra giusta”? Perchè questo è diventato ormai uno dei compiti degli intellettuali impegnati, quelli di cui si parla oggi forse più che negli anni trenta con reverenza, perfino con soggezione, in quanto interlocutori indispensabili per chi governa, capaci di forgiare la pubblica opinione e di garantire una legittimazione simbolica; sostituendo, ha detto qualcuno forse con troppa enfasi, in tale ruolo i preti.
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