Descalzi (Eni): «Serve una strategia comune dell’Unione europea per l’energia. Sì a un tetto del gas»
di Daniele Manca
C’è forse un altro periodo che ha visto l’Italia muoversi nel Mediterraneo e in generale nei Paesi fuori dai blocchi geopolitici mondiali con la stessa forza di queste settimane e mesi. Si deve risalire agli anni Sessanta per avere un’idea di che cosa significa tessere le fila di alleanze, muoversi affinché l’evoluzione geopolitica globale sia pacifica e al tempo stesso garanzia di sviluppo per i Paesi e le relazioni economiche. Erano gli anni in cui Paesi come l’Algeria, l’Egitto la stessa Libia che si stavano affrancando dalla dominazione coloniale, cercavano interlocutori nel mondo occidentale. Anni in cui si erigevano muri-simbolo della Guerra fredda. Oggi la guerra è purtroppo reale e vissuta drammaticamente dal popolo ucraino all’indomani dell’invasione russa. Le sue conseguenze economiche sono però diffuse in ogni angolo del mondo e si misurano in termini di bollette elettriche, e in genere energetiche, che aumentano, in prezzi che corrono alimentando l’inflazione.
Avere antenne su quanto sta accadendo dell’energia, della sicurezza energetica, degli approvvigionamenti, è quanto mai prezioso. Claudio Descalzi dal 2014 è a capo dell’Eni dopo 30 anni trascorsi prima coordinando i lavori direttamente sui giacimenti e poi via via con responsabilità crescenti nel gruppo. Un tempo si definiva petrolifero e oggi è molto di più con attività che vanno dalla ricerca alla decarbonizzazione, dalle rinnovabili passando per i servizi, il nucleare da fusione. Descalzi è appena tornato da Washington dove prevede di tornare a giorni. Nella capitale Usa ha ricevuto, primo italiano del mondo imprenditoriale, il Distinguished Business international award dell’Atlantic Council, nello stesso giorno nel quale è stato premiato il presidente del Consiglio Mario Draghi. Un riconoscimento che arriva per la trasformazione tecnologica dell’azienda orientata alla completa decarbonizzazione, all’indomani degli importanti accordi firmati dall’Italia con Algeria, Egitto Congo e Angola per «ottenere nuove opportunità di forniture energetiche per il nostro Paese e per l’Europa».
È evidente che in Europa si sia sottovalutata la situazione. Ma nuove opportunità significa riuscire a potersi sganciare dalla forniture da un partner poco affidabile come la Russia?
«Facciamo un passo indietro. Già prima del conflitto eravamo nel mezzo di una crisi dei prezzi del gas derivante dalla drastica riduzione degli investimenti nella ricerca e sviluppo di idrocarburi, che sono passati da 800 a circa 400/350 miliardi di dollari all’anno e da una conseguente carenza d’offerta a fronte del rimbalzo economico del post Covid».
Guerra o non guerra ci saremmo trovati in questa situazione…
«Il rimbalzo delle economie era evidente. Ma senza energia si fermano industria, sanità, persino l’educazione»
E quindi?
«E quindi il traino delle economie asiatiche, le manovre di stimolo alle economia sia fiscali sia monetarie hanno permesso una cosa alla quale in ogni angolo del mondo si puntava: la crescita. Il post Covid ha determinato una correzione nell’offerta delle fonti. Tenga conto che ancora oggi il 37% dell’elettricità mondiale proviene dal carbone, peraltro producendo il 72% di emissioni di C02».
Immagino che con la guerra…
«Con la guerra la crisi si è accentuata, con una volatilità e picchi di prezzo che peraltro non riflettono i flussi reali del mercato. Oggi la Russia esporta di più di prima».
C’è stata anche speculazione insomma…
«Come sempre accade in questi casi nel mondo della finanza. E’ evidente però che l’emergenza di una potenziale e improvvisa mancanza di gas russo ci ha nuovamente messi di fronte a una sicurezza energetica mondiale non scontata».
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