Il mito rovesciato di Mosca
Più complesso capire l’effetto della radiazija ideologica in Occidente. In parte va cercato nella persistenza della memoria dell’Ottobre, nella simbologia della madre di tutte le rivoluzioni più ostinata della realtà, nonostante le rivelazioni e le sconfessioni della storia. Questo vale a sinistra, naturalmente: in quella sua parte dove, quando il fuoco dell’epopea leninista si spegne, resiste la cenere sempre accesa dell’antiamericanismo, dell’anticolonialismo e dell’antimperialismo, sotto forma di una diffidenza irrisolta nei confronti dei valori dell’Occidente e delle sue istituzioni.
Le questioni per la sinistra dubbiosa sono due: perché non sente il dovere di difendere i valori democratici calpestati dall’invasione, come se non la riguardassero, mentre invece dovrebbero essere i suoi punti di riferimento? E perché la ripulsa anticoloniale e antimperiale non scatta spontaneamente nei confronti di Mosca, davanti all’abuso della forza che spezza la regola, infrange il diritto e sostituisce la convivenza pacifica con la guerra?
Mentre la sinistra nasconde le sue contraddizioni, la destra cripto-russa sembra invece ricercare di proposito la potenza di questo abuso, proprio perché crea lo stato d’eccezione, cancella ogni vincolo normativo e fonda una nuova sovranità autocratica e autoritaria, che chiede obbedienza mentre rompe la tavola dei valori condivisi.
C’è dunque nella destra europea, davanti a questa guerra, l’attenzione e l’attrazione per un possibile superamento della forma democratica nella sua configurazione liberale, l’interesse per la politica che diventa direttamente potere, il governo che si trasforma in comando, il comando che trasmuta in dominio. La fascinazione della Russia per la destra è nella forzatura putiniana del limite democratico, nella sua scelta di non riconoscere l’interdetto della legge e del diritto, nella ricerca di un nuovo ordine che si emancipa dalla cultura costituzionale del Dopoguerra occidentale.
Come effetto secondario del conflitto, e attorno al campo di battaglia, la storia si rimette in movimento, nega le sue derivazioni dal passato, cerca un nuovo punto di partenza basato sulla fine del secolo democratico, come cent’anni fa. La sorpresa è che alla prova dei fatti la democrazia trova difensori deboli, tiepidi, divisi, mentre deve fronteggiare avversari solidi e agguerriti e un’area grigia in cui radicalismi di destra e di sinistra si mescolano senza volerlo con motivazioni diverse e delusioni comuni. Un’area che assume immediatamente un connotato populista, secondo lo spirito dei tempi, impolitico e avventurista, polemico con i valori, le istituzioni e la cultura della democrazia liberale.
Putin può quindi pescare con profitto nel disincanto europeo, a cui propone un modello alternativo alla Ue, ai principi occidentali, alla democrazia così come noi la conosciamo. Persa con l’invasione la rendita sovrana di interlocutore naturale e protagonista riconosciuto al tavolo delle potenze mondiali, acquista però un reddito politico da sfidante, avversario e Capo di un contromondo in formazione.
È l’interesse politico a far parte di questo mondo contrario che spinge Salvini nel suo pellegrinaggio a Mosca. Più per ottenere l’imprimatur come concessionario italiano del marchio putiniano antioccidentale che per testimoniare al Cremlino i valori, i giudizi e le richieste del governo italiano e dell’Europa.
Questo sbandamento non è accettabile per un partito che fa parte del governo. Salvini deve ancora spiegare il segreto del Metropol, quando a Mosca uomini della Lega a lui molto vicini discutevano di tangenti petrolifere con interlocutori russi, mettendo a disposizione in cambio pezzi di politica estera italiana. E deve comunque specificare, quando annuncia che parlerà di pace, se intende la pace europea, con il ritiro dei russi dalle zone occupate, o la pace putiniana, imposta col tallone di ferro.
Deve cioè chiarire quali sono i principi che testimonierà sulla piazza Rossa, dove in passato ha dichiarato di sentirsi a casa più che a Roma: i principi del governo e della Ue, o quelli di Marine Le Pen e di Viktor Orbán? Perché oggi non basta dire pace. Soprattutto a Mosca.
REP.IT
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