Il 2 giugno e la Nato: una doppia lezione

di Antonio Polito

A ripensarci tanti anni dopo, la frattura monarchia-repubblica aperta dal referendum del 2 giugno del 1946 fu ricucita in un tempo sorprendentemente breve. E non era stata certo una spaccatura da poco: quasi undici milioni di italiani, pari al 45,7% dei votanti su scala nazionale e maggioranza nel Meridione, avevano votato per conservare la monarchia sabauda. Il clima era stato così incandescente («o la Repubblica o il caos», aveva minacciato Nenni) che le accuse di brogli durarono per anni. De Gasperi, ben consapevole del radicamento della causa monarchica nel Paese, aveva voluto il referendum proprio per togliere alla Dc la responsabilità della decisione. Non a caso la scelta dei due primi capi dello Stato, Enrico De Nicola e Luigi Einaudi, cadde su personalità che avevano votato per la monarchia al referendum.

Eppure, in pochi anni, la delicatissima questione della forma di Stato smise di essere una causa di conflitto politico. La Repubblica seppe assorbire il dissenso, grazie alla crescita economica e ai massicci investimenti pubblici nel Mezzogiorno, guidati dalla Dc; e grazie alla scelta del Pci di Togliatti di accettare il gioco democratico nell’arena costituzionale garantita dalla scelta repubblicana. Già alla fine degli anni ‘50 i partiti monarchici avevano esaurito la loro forza politica, nonostante il successo locale del laurismo a Napoli.

Ben diversamente le cose andarono con l’altra grande frattura politica che segnò il primo dopoguerra: quella tra i sostenitori dell’adesione italiana alla Nato e i suoi contestatori. Tra chi scelse l’Occidente e gli Stati Uniti nella nuova divisione del mondo e chi invece immaginava di poter stare dall’altra parte nella Guerra Fredda incipiente, con il comunismo e con l’Urss.

Ci fu anche nel mondo cattolico una spinta per tenere una posizione «neutralista», o l’illusione di un possibile «terzaforzismo» per il nostro Paese. Ma il dissenso nella Dc, che De Gasperi aveva tollerato sulla monarchia, venne invece combattuto e sconfitto sulla questione delle alleanze internazionali. Così il Pci, che pure aveva fatto fronte comune con gli altri partiti antifascisti per far nascere la Repubblica e aveva poi partecipato a scriverne le regole nella Costituzione, finì all’opposizione per i successivi quarant’anni, fino a Berlinguer. E anzi le onde d’urto provocate da quella frattura sembrano essere arrivate fino ai giorni nostri: se ne sente un’eco nelle polemiche dei filo-russi contro il sostegno all’Ucraina dell’Italia.

Questi precedenti storici ci dicono che, contrariamente a quanto si sarebbe portati a pensare, perfino una questione istituzionale serissima come quella della monarchia può essere risolta con gli strumenti della politica e con il compromesso. Ne è un magnifico esempio la Quinta Repubblica francese, di fatto una «monarchia repubblicana». Non così è per la politica estera, che in definitiva è l’essenza della politica, perché il suo oggetto è l’interesse nazionale.

Ogni qualvolta si presenta in termini da reclamare scelte di campo — e il tempo che stiamo vivendo è una di quelle volte — impone decisioni nette e conseguenti. Non è aggirabile con giochi di parole e soluzioni pasticciate. Ogni crisi internazionale — come ha scritto di recente Angelo Panebianco — lascia un panorama politico che non sarà mai più quello di prima. Si può infatti dire — ed è stato detto — che l’atto di nascita della Repubblica italiana è duplice: c’è il referendum istituzionale del 2 giugno, e ci sono le elezioni del 18 aprile del 1948, che diedero la maggioranza assoluta alla Dc e aprirono la strada, meno di un anno dopo, all’adesione dell’Italia alla Nato. Una sorta di Costituzione materiale che vincolò la Repubblica e si affiancò alla Costituzione vera e propria, scaturita dal referendum del 1946 e dalla collaborazione delle forze antifasciste.

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