Giustizia, il nuovo bavaglio all’informazione
Paolo Colonnello
Se è vero che la strada per l’Inferno è lastricata di buone
intenzioni, allora la riforma Cartabia, in tema di libertà di stampa,
equivale a un’autostrada la cui destinazione è il bavaglio
dell’informazione. Sotto la voce di «presunzione d’innocenza» si rischia
infatti non solo di rendere le Procure luoghi vietati ai giornalisti,
come è già accaduto a Torino e in altre città d’Italia, ma di ingabbiare
la cronaca nera e giudiziaria in una serie di sterili comunicati
teleguidati da algidi procuratori con la reintroduzione del concetto
delle «veline di regime»: in particolare dove si stabilisce che le
notizie «autorizzate» veicolate alla stampa debbano avere «attinenza
alle indagini» (e ci mancherebbe) e «un interesse pubblico». Già nella
scelta delle parole, cioè notizie «autorizzate» e di «interesse
pubblico» non può che intravvedersi un’attribuzione impropria ai
procuratori – che sono comunque delle parti del processo e quindi
intrinsecamente privi di terzietà – di compiti di inevitabile censura,
intollerabili in un Paese democratico.
Se poi si considera che la
norma prevede per la maggior parte dei casi «l’esclusivo» utilizzo dei
comunicati stampa, si può ben capire che ai giornalisti viene vietato
perfino di porre domande. Il diritto di cronaca non è un’invenzione dei
giornalisti ma un principio garantito dall’articolo 21 della
Costituzione, essendo l’esercizio della ricerca delle notizie e la loro
pubblicazione uno dei pilastri delle società democratiche. Tutelati
dalla Costituzione sono anche i diritti degli individui, compresa la
presunzione d’innocenza. Far prevalere però con un articolo di legge uno
dei due diritti, nella difficile e quasi quotidiana ricerca di
equilibrio tra questi due capisaldi democratici, è come truccare la
partita e apre la strada a un sogno sempre accarezzato da chi sta al
potere: controllare l’informazione. Anche e soprattutto in tema di
cronaca giudiziaria dove, com’è noto, spesso si consumano vicende
sgradite al potere: dalle corruzione alle grandi scalate finanziarie,
fino ai delitti di sangue che spesso si rivelano un formidabile
termometro per la febbre del disagio sociale (non a caso la cronaca nera
venne sostanzialmente vietata durante il fascismo). Impedire
all’informazione di avere un libero accesso a possibili fonti e
attribuire a un inquirente il potere di stabilire cosa sia di «pubblico
interesse» e cosa no, è semplicemente un arbitrio che nulla ha a che
fare con la presunzione d’innocenza.
Nessuno nega che l’incontinenza verbale espressa in certi titoli o articoli non sia più accettabile e che il vezzo del processo mediatico sia francamente intollerabile e fuorviante. Ed è giusto che venga vietato agli inquirenti o alle forze dell’ordine di intitolare le loro inchieste con nomi suggestivi e inevitabilmente colpevolisti. Ma il diritto di cronaca è altro. È la possibilità di poter controllare direttamente una notizia, di poter fare domande ai protagonisti di un’inchiesta, siano essi indagati, avvocati o magistrati.
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