Russia-Ucraina, i 100 giorni di guerra che hanno cambiato il mondo
I russi si ritiravano allora! Il miracolo era riuscito, l’esercito dell’Orco veniva descritto come una masnada di generali corrotti e incapaci e di soldati renitenti. Si tracciavano, troppo presto, i conti del dopo: le riparazioni da chiedere, le punizioni da esigere.
Poi è venuta Bucha e gli altri quartieri dell’orrore, con i cadaveri abbandonati per strada, le tombe scavate in frettolosi strati di terra nei giardini delle case e dei parchi, i filmati con i civili in fila per l’esecuzione. Abbiamo scoperto che la guerra anche quella tra europei, non è un gioco di scacchi, non ha regole o linee che non si possono infrangere. I russi non erano soltanto aggressori che volevano imporre nel Palazzo di Kiev un suddito obbediente come un tempo, erano irrequieti avventurieri che cercavano la strage, il bottino e il disordine. La guerra ha cominciato a sfogliare le nostre educate, ipocrite illusioni: non ce la saremmo cavata con le sanzioni e gli eroici sudori di una estate senza aria condizionata.
È allora che la guerra è cambiata. Ed è stata la seconda frustata: Mariupol e l’acciaieria assediata con le latonie a difendere un cieco, inutile coraggio. La guerra è diventata un accatastamento di cose selvagge, livide che si mescolano, si confondono in cui i giorni si incidono con una brutalità da acquaforte.
Da allora è tornata nella piana del Donbass, tra le montagne morte dei residui di carbone da dove era partita otto anni fa. E ora tutto odora acremente di polvere e i russi, per vincere, hanno stabilito che qui dopo non sussista più niente. La battaglia divora vite nelle pianure di Severodonesk e di Lugansk, la morte sbriciolatrice dell’artiglieria si insinua, svela sua faccia primitiva e maledetta. Città e villaggi perdono la loro aria di balocco nelle pianure mosse da onde di inutile grano che non si può raccogliere. Alti camini di fumo salgono tra le case e le fabbriche. Ogni cosa muore in un grigio uniforme. I russi avanzano tra rovine che sembrano già vecchie, fatte di lembi di muri, aguzzi come denti cariati. Il Donbass sta per morire. Il Donbass muore.
In un rombo cupo martellato dai colpi più forti come in un tappeto di incudini, soldati ucraini, lividi, con le divise di fango, si ritirano. Muoiono, ora si ammette, a centinaia ogni giorno. A mezza voce lanciano le prime accuse: a Kiev li hanno traditi, lasciati in balia del nemico senza munizioni, senza armi efficaci… I civili che non hanno potuto o voluto fuggire, una folla avida e magra, aspettano i russi che avanzano cauti. Nascondono le bandiere ucraine e li guardano passare con occhi già ostili. Ci si prepara al dopo, bisogna sopravvivere, il destino sembra aver gettato i suoi dadi. Non c’è più niente della Ucraina qui, la terra a cannonate è stata fatta tornare al caos delle prime età sotto il suo cielo immenso come il dolore. Zelensky ha ammesso che i russi controllano ormai il venti per cento dell’Ucraina.
È questa la vittoria di Putin? Qualche chilometro di pianura dove le vittime, la bocca spalancata, le braccia in croce, aspettano la loro seconda morte.
LA STAMPA
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