L’Europa senza mappa
Con due anni di lavoro – dal 1973 al 1975 – di 35 Stati, ciò che va sotto il nome burocratico di Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE) è stato esattamente questo: un impegno solenne, firmato a Helsinki da tutti i Paesi europei – Urss naturalmente compresa, Albania autoesclusa fino al 1990 – più gli Stati Uniti e il Canada, a unire i loro sforzi allo scopo di superare la diffidenza e sviluppare la fiducia reciproca, riconoscendo il legame indispensabile tra pace, sicurezza e diritti fondamentali. Vincitori e vinti dell’ultima guerra, Paesi capitalisti e comunisti, Stati divisi da un Muro come le due Germanie, Est e Ovest l’un contro l’altro armati si obbligavano reciprocamente al rispetto della sovranità altrui, dell’integrità territoriale, dell’inviolabilità delle frontiere, del non intervento negli affari interni, dell’autodeterminazione dei popoli, del rispetto dei diritti umani e del divieto di ricorrere alle minacce e all’uso della forza.
Un vero e proprio meccanismo di garanzia internazionale, un atto di fiducia nella sopravvivenza di ragioni e interessi comuni sotto la distanza di sistemi politici e ideologici contrapposti, quasi una scommessa sul significato autentico del concetto di Europa, nelle sue due parti occidentale e orientale. Tutto questo solo trent’anni dopo la fine di un conflitto mondiale, nella convinzione che esistessero comunque valori comuni cui appoggiarsi per costruire un sistema di prevenzione dei conflitti, mentre si completava la ricostruzione delle strutture sociali democratiche. Nel ‘90 la “Carta di Parigi”, in uno slancio di ottimismo, certifica che “l’Europa si sta liberando dal retaggio del passato mentre il coraggio di uomini e donne e la potenza della volontà dei popoli dischiudono una nuova era di democrazia, pace e unità” sul continente. Nel ‘94 a Budapest e nel ‘96 a Lisbona la Conferenza si trasforma in Organizzazione (OSCE), e da “strumento di preallarme e prevenzione delle crisi” diventa la sede di elaborazione “di un modello comune per uno spazio di sicurezza dell’Europa nel ventunesimo secolo”.
In questo impianto è certo visibile a occhio nudo il velleitarismo della diplomazia e anche l’ipocrisia della politica, che fingeva di considerare la democrazia una conquista comune a Ovest e a Est, mentre l’Urss riconosceva l’autodeterminazione dei popoli sulla carta di Helsinki e la negava nella vita quotidiana dei Paesi satelliti. Ma è altrettanto riconoscibile lo slancio per dare basi solide alla pace, quasi organizzandola per renderla permanente, ricercando intanto le radici di un sentimento storico, politico e culturale comune, che per forza di cose si chiama Europa.
Tutto questo oggi non c’è più, cancellato dall’invasione armata. Ma non possiamo farne a meno, così come Russia e Europa – avverte il premio Nobel Svetlana Aleksievic – non possono fare a meno l’una dell’altra. Da qui, dopo aver esercitato non il diritto, ma l’obbligo morale di distinguere tra gli aggressori e le vittime, bisognerà ricominciare, in quella fatica della democrazia che è la sua quotidiana, grandiosa condanna.
REP.IT
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