L’inflazione e l’equivoco sul salario minimo

di Alberto Mingardi

I bassi salari italiani riflettono la storia del Paese, le rigidità del sistema, la scarsa certezza del diritto. Problemi che non si risolvono con slogan ma con riforme

«Per ogni problema complesso c’è una risposta che è chiara, semplice e sbagliata», diceva H.L. Mencken. In Italia, fra il 1990 e il 2020, il salario medio (a parità di potere d’acquisto) è diminuito del 2,9 per cento. Per questo la discussione sulla nuova direttiva europea in tema di salario minimo nel nostro Paese ha avuto più eco che altrove. L’inflazione non è più materia per arcane discussioni fra
economisti. Le persone la misurano andando a fare la spesa.
La situazione internazionale alimenta l’incertezza: l’economia italiana non crescerà quanto ci aspettavamo nel 2022, probabilmente non crescerà affatto e comunque troppo poco. Nella preoccupazione, ci si aggrappa alla speranza di un aumento dei salari.

È questo l’equivoco di fondo: non sarà una soglia minima delle retribuzioni a farle crescere. Anche se il non detto, la speranza nascosta sembra essere questa quando si rincorrono nei dibattiti di politici e cittadini il rincaro dei prezzi e il salario minimo. Ma si rischia di cadere in una trappola. Innanzi a un problema, vorremmo che tutto si potesse sistemare con una singola decisione. La politica si offre con slancio di fare le sue magie. Facile che si rivelino mere illusioni.

In Europa, alcuni Paesi hanno il salario minimo, altri, come noi, i contratti collettivi nazionali validi erga omnes. I due strumenti sono alternativi. I contratti collettivi definiscono già la remunerazione del grosso della forza lavoro (oltre l’80%). In Italia abbiamo anche un salario minimo di fatto. Avendo introdotto il reddito di cittadinanza, quest’ultimo diventa una sorta di valore di riferimento. Lo stipendio offerto da un datore di lavoro non può situarsi al di sotto di quella soglia, altrimenti il lavoratore saluta e si mette in fila per il sussidio.

Negli scorsi mesi, si è scritto molto sulla contrazione dell’offerta di lavoro. Avendo affrontato la pandemia a suon di «ristori», molti Paesi, Italia inclusa, si ritrovano con una forza lavoro non più disponibile ad accettare alcuni impieghi e le rispettive retribuzioni. Gli stessi Paesi non sono propensi ad aprire le frontiere a chi quei lavori e quelle retribuzioni accetterebbe.

Il salario minimo implica una maggiore rigidità sul lato della domanda. L’effetto sul lavoro poco qualificato è prevedibile: all’aumentare del prezzo, se ne chiederebbe di meno. Altrimenti perché ragionare (come fa l’Ue) su valori ben inferiori al salario di equilibrio? E sul resto delle professioni non ci sarebbe quella sorta di «spinta al rialzo» in cui molti sembrano sperare.

Tutti tendiamo a pensare al salario come a qualcosa che il datore di lavoro decide per noi. Crediamo che se qualcun altro (lo Stato) gli ordinasse di pagarci di più, lo farebbe. Le cose non stanno proprio così. L’imprenditore remunera i fattori produttivi in modo coerente con i costi che ritiene possibile sostenere, in vista della realizzazione di un dato bene o servizio e della sua vendita a un certo prezzo. Per questo, gli operai della Ferrari se la passano meglio degli altri. Le doti (gli skill) e la produttività del lavoro influenzano la remunerazione.

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