L’inflazione e l’equivoco sul salario minimo

Salari più alti certificano il buono stato di salute di un Paese perché segnalano, ad esempio, che il sistema educativo funziona e forma persone qualificate ma anche che le produzioni utilizzano macchinari e strumenti i più avanzati. E certificano quegli incrementi di produttività che dal 1995 in Italia è cresciuta solo del 10% mentre nei Paesi della zona euro è salita di quasi il 40%. Simmetricamente, il basso costo del lavoro «compensa» bassi investimenti in tecnologia, competenze inadeguate, alti costi legati, per esempio, ai servizi che un’impresa deve acquistare e anche alla scarsa certezza del diritto.

I bassi salari italiani non sono un «problema» per cui ci sia una «soluzione». La dinamica degli stipendi riflette la storia del Paese, le rigidità del sistema, persino la poca certezza del diritto, i limiti di università e scuola. A questo si aggiunge ora l’inflazione che innegabilmente taglia il potere d’acquisto, per di più in modo differenziato, pesando di più sui redditi bassi. E si capisce come questo non sia il tempo degli slogan e delle misure bandiera, ma quello, ancora una volta, delle riforme mai fatte.

CORRIERE.IT

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