L’Unione (di nuovo) di fronte al bivio

di Goffredo Buccini

La guerra in Ucraina ripropone il tema dell’ingresso dei Paesi ex comunisti, che Macron propone secondo un processo «graduale»

La crisi ucraina rimette l’Europa di fronte a una scelta cruciale fatta nei primi anni del Duemila: l’allargamento dell’Unione ai Paesi ex comunisti. E le impone di soppesarne le conseguenze nel bene e nel male, anche in vista del prossimo, delicato Consiglio europeo del 23 e 24 giugno. Poche cose come l’ansia di protezione di Zelensky ci mostrano quanto allora fosse ragionevole accogliere in seno all’Europa delle democrazie liberali chi si era appena sbarazzato del giogo di Mosca. Se anche l’Ucraina fosse entrata a suo tempo nella Ue, Putin assai difficilmente si sarebbe avventurato adesso ad aggredirla: l’ombrello europeo è, e sarà, l’ostacolo politico maggiore alle mire espansionistiche di chicchessia.

Per converso, poche cose come l’ostruzionismo filorusso del leader ungherese Orbán ci rivelano quanto fosse prematuro inglobare membri privi di una sedimentata cultura dei diritti e permeati invece da una corruzione istituzionale endemica, quali erano i Paesi ex comunisti, senza prima definire un contesto di norme che ne ammortizzasse l’impatto. Se non fossimo gravati ancora oggi dallo sciagurato fardello dell’unanimità, l’Ungheria tanto legata a Putin avrebbe una capacità di paralizzarci ben più ridotta e, forse, commisurata infine a una popolazione pari appena a quella della Lombardia. Si tratta di contraddizioni vistose, che solo una politica visionaria (e coraggiosa) può sanare domani. Come politicamente visionaria (e generosa) fu la scelta che ieri le generò.

Ricordiamolo: dal trattato di Nizza, del dicembre 2000, all’allargamento ufficiale ai nuovi membri, nel maggio 2004, l’Unione, con Romano Prodi a capo della Commissione, era permeata dall’entusiasmo di riappropriarsi del suo intero corpo, esorcizzando i demoni dei totalitarismi che tanto l’avevano piagata nel Novecento e includendo quei fratelli europei a lungo imprigionati nella cortina di ferro. Prodi non era il solo a sentire lo slancio che portò l’Europa da quindici a ventisette. Alla cerimonia nel Castello di Dublino, il premier francese Raffarin aveva «le lacrime agli occhi» e il cancelliere tedesco Schröder (non ancora putiniano) scommetteva: «L’allargamento ci renderà più ricchi». Purtroppo, a un afflato così nobile non corrispose una fortuna politica all’altezza. Il Trattato di Nizza si rivelò elefantiaco e inapplicabile. La Costituzione europea, altrettanto pletorica, fu affondata nel 2005 dal referendum francese e da quello olandese. Nell’impalcatura, pur rivista dal Trattato di Lisbona, restò la falla delle minoranze di blocco: il voto di quei Paesi in grado di paralizzare le decisioni europee impedendo di raggiungere la prescritta unanimità. Erano insomma già sul tavolo i guai che ci avrebbero afflitto in seguito.

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