I volenterosi carnefici della disunità nazionale
Per questo, incapaci noi di chiudere quei rubinetti per i troppi interessi contrapposti, è lo stesso Putin che ci trae d’impaccio. Li chiude lui, dimezzando le forniture di metano Gazprom all’Eni, come aveva già fatto con le consorelle francesi, tedesche, polacche. Si può permettere persino questo lusso, visto che i prezzi del gas sono cresciuti comunque del 43 per cento in una settimana. I guai sono più nostri che suoi, con il caro-energia che pesa per altri 27 miliardi sulle imprese italiane. Possiamo solo sperare che al vertice del 23-24 giugno Draghi riesca a piegare la resistenza tedesca, e ottenere davvero una data certa per la fissazione di un tetto europeo ai prezzi del gas. Se fallisce anche questo tentativo, non si vede con che faccia i capi di Stato e di governo di Eurolandia possano continuare a dire “Putin non vincerà”. Sta già vincendo, almeno la sporca guerra economica. Quella militare, chissà.
Janan Ganesh, sul Financial Times, ricorda la famosa frase che l’allora ministro degli Esteri del Lussemburgo Jacques Poos pronunciò nel ’91, quando deflagrò il conflitto nei Balcani: “Questa è l’ora dell’Europa, non dell’America”. Ebbene, sono passati trent’anni, due mesi fa Poos ci ha lasciati, ma quell’ora non sembra arrivata. La guerra va avanti. È la stessa Nato, che si riunirà a Madrid il 29 e 30 giugno, a prevedere che potrebbe durare 5 o anche 10 anni. Ed è solo Papa Francesco a urlare inutilmente la sua preghiera per la pace, nella conversazione con Antonio Spadaro che abbiamo pubblicato martedì scorso. Anche a costo di rifiutare la logica da Apocalisse permanente di chi vuole “ridurre la complessità alla distinzione tra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi”. Anche a costo di riconoscere che questa guerra “è stata forse in qualche modo o provocata o non impedita”. E mentre dice questo, persino il Pontefice della Chiesa di Cristo sente il dovere di giustificarsi e di chiarire che lui “non è a favore di Putin!”. Un piccolo, grande sintomo della penosa intifada ideologica e manichea che domina il discorso pubblico italiano intorno alla guerra. E che culminerà nella posticcia ordalia parlamentare di martedì prossimo, quando il premier farà le sue comunicazioni in aula e si voteranno le risoluzioni sull’invio di nuove armi a Zelensky, alle quali lavorano volonterosi carnefici di questo governo di (dis)unità nazionale. E solo la folle eutanasia politica dei Cinque Stelle può produrre, nelle stesse ore, l’arcana profezia dell’Elevato sul secondo mandato, la scampagnata russa del Dibba, l’Oblomov di Roma Nord, il rifiuto irenico sui cannoni all’Ucraina e il fuoco amico sul ministro degli Esteri, il fedifrago Di Maio sfiduciato dall’ala contiana. Così, tanto per destabilizzare un altro po’ il Paese, che ne sentiva davvero un gran bisogno.
Sopravvissuto al suo imprevisto e drammatico “sabato”, Henry Perowne tira le somme e trae una lezione. “Più allarghi il campo, più merda vedi. Quando ci ostiniamo a occuparci dei massimi sistemi, della guerra, della situazione politica, del surriscaldamento dell’atmosfera, della povertà del mondo, sembra tutto tremendo, senza possibilità di recupero, senza la minima prospettiva. Se invece ridimensiono il pensiero, avvicino lo sguardo, diventa tutto bellissimo. Perciò d’ora in poi il mio motto sarà: solo pensieri su scala ridotta…”. Il “corto-termismo” come strategia di sopravvivenza: purtroppo, è esattamente quello che noi europei non possiamo più permetterci di fare. Abbiamo bisogno di pensieri lunghi. Parafrasando Churchill sulla scelta tra il disonore e la guerra, e applicandolo all’alternativa posta a suo tempo da Draghi: dovevamo scegliere tra i condizionatori e la pace, non avremo né gli uni né l’altra.
LA STAMPA
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