Di Maio: “Ormai non potevo più tacere, è una questione di sicurezza nazionale”
Annalisa Cuzzocrea
«Non potevo fare altrimenti», dice Luigi Di Maio. «Sono il ministro degli Esteri di un Paese che sta affrontando una situazione delicatissima. Non posso andare all’estero a spiegare posizioni ambigue sulla guerra. Questa non è una vicenda personale, è un tema nazionale, è una preoccupazione fortissima che non riguarda solo me. Quello che stanno facendo è molto pericoloso».
È il primo pomeriggio di ieri quando al capo della Farnesina arrivano i segnali di quel che sta per accadere. Il Movimento 5 stelle di cui è parte fin dall’inizio, che ha rappresentato come vicepresidente della Camera prima, come capo politico poi, fino a portarlo all’oltre 33 per cento delle ultime elezioni politiche, vuole metterlo fuori.
Non potranno farlo subito per ragioni procedurali, dovranno capire cosa pensa davvero di tutta questa storia Beppe Grillo, ma Giuseppe Conte e i suoi vicepresidenti hanno deciso di fare una dichiarazione che non lasci spazio a dubbi: Di Maio non parla più a nome del Movimento.
È la fine di un’epoca, l’ennesimo strappo senza precedenti dopo il distacco dalla Casaleggio Associati e quello dal fondatore cui è rimasto il ruolo di Garante (e di “comunicatore” a 300mila euro l’anno). Il ministro degli Esteri continua a dire a tutti coloro che riescono a parlarci che non aveva scelta: «Avete visto come la Russia è pronta a saltare sulle nostre divisioni? Non capiscono che non ce lo possiamo permettere? ». Giura che al suo destino personale nemmeno ha pensato. È rimasto in silenzio in tutti questi mesi – dopo aver posto il problema della débâcle nella partita per il Colle – e non ha rilasciato nessuna dichiarazione sulla politica interna per non essere considerato un sabotatore. Ma adesso intende mettere la sua forza politica di fronte al dovere della chiarezza: «Siamo o no nella Nato? Agiamo o no in totale coordinamento con l’Unione europea? L’Italia intende ergersi a difesa dell’Ucraina o della Russia? ». Sono domande imprescindibili in questo momento storico e secondo Di Maio servono risposte meno ambigue di quelle date fin qui. Parla di «operazione verità», perché non ci si può più nascondere dietro a pensieri arzigogolati che seguono l’ultimo sondaggio e il consenso perduto: «Non possiamo mettere in discussione la nostra collocazione internazionale – ha detto più volte in questi giorni – è prima di tutto una questione di sicurezza del Paese». Quando ha visto la bozza di risoluzione preparata dai senatori per il 21 giugno, il capo della Farnesina ha avvisato: «È impraticabile». Adesso è accusato di averla fatta circolare lui, ieri, in modo da mandare a monte la difficile mediazione che stava tentando il Partito democratico per disinnescarla. Il punto però non sono più le reciproche tattiche e narrazioni. Il punto è che da qui non si torna indietro. Che ogni composizione del dualismo interno appare ormai impraticabile. E anche se i vertici M5S dicono che mai chiederanno al ministro degli Esteri di dimettersi, neanche se la scomunica diventasse presto un’espulsione, è chiaro che una mossa del genere non può non creare una fibrillazione nel governo. Dando ragione a chi pensa che Conte non veda affatto con dispiacere l’idea di un appoggio esterno che consenta a Draghi di andare avanti e al Movimento di fare una campagna elettorale con le mani più libere. Dei ministri, Stefano Patuanelli lo seguirebbe facilmente, probabilmente farebbe più fatica a convincere Fabiana Dadone e Federico D’Incà, ma è un’opzione che nessuno si sente più di escludere.
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