Se la Storia spinge l’Ucraina nell’Unione europea

di Marta Dassù

Ha senso dare all’Ucraina, come ha raccomandato di fare la Commissione europea, lo status di Paese candidato all’adesione all’Ue? Se lo chiedete a un diplomatico dirà che ha poco senso, le procedure sono complicate, l’Ucraina è ancora lontana dal rispetto dello stato di diritto e non si possono fare sconti a Kiev a scapito dei Paesi dei Balcani (fra cui Serbia e Albania) che sono in coda da tempo. E quindi: facciamo pure un gesto simbolico, ma passeranno anni prima di accogliere Kiev nella famiglia europea.

Se lo chiedete invece a un esperto di geopolitica pura e dura, risponderà che all’Italia conviene solo fino a un certo punto o per niente: il baricentro dell’Ue si sposterà verso Est, penalizzando l’Europa mediterranea. E ciò si aggiunge allo scivolamento “baltico” della Nato, con il possibile ingresso di Finlandia e Svezia: il fianco Sud dell’Europa resta più scoperto di prima.

Tuttavia Mario Draghi, sponsor primario di questa apertura all’Ucraina fra i grandi Paesi europei, non è né un diplomatico né un geopolitico. È un europeista ispirato e pragmatico, che ha colto un punto essenziale: se mancherà anche questo appuntamento con la Storia – come gestire il ritorno della guerra nel proprio continente – l’Ue finirà per disgregarsi.

Una forzatura politica è quindi necessaria: aprire all’Ucraina una prospettiva europea significa riconoscere che l’Ue deve ormai pensarsi e agire come una potenza internazionale e non solo economico-commerciale. E una potenza, per immatura che sia, deve potere prendere decisioni rapide: la politica estera è fatta di valori e interessi, di salti di qualità e non solo di procedure formali.

La cosa è più chiara se guardiamo al contesto strategico: il conflitto nelle “terre di sangue” (definizione di Timothy Snyder), contese da secoli fra Russia e Polonia, ricadrà comunque sulle spalle dell’Europa. Con tutti i costi che già vediamo ma anche con le responsabilità che ne derivano.

Vladimir Putin, nel suo velleitario discorso al Forum di San Pietroburgo, ha detto che Mosca considera ormai l’Europa una “colonia” degli Stati Uniti, destinata a una crisi terminale dopo avere perso la sovranità e deciso sanzioni che fanno il solletico alla Russia (allora perché preoccuparsene?) e colpiscono invece la propria popolazione. Dalla prospettiva di Mosca, la guerra in Ucraina è parte del confronto con un Occidente che Putin contava di potere dividere.

La brutale aggressione del 24 febbraio ha prodotto semmai il risultato opposto. Ma l’idea è ancora questa: il capo del Cremlino spera che la “fatica per la guerra” – una guerra che sarà lunga, si legge nelle righe del discorso di San Pietroburgo – e l’uso dell’arma del gas dividano i governi occidentali prima di fiaccare la Russia. In modo ancora più diretto, il vicepresidente del Comitato affari internazionali della Duma, Nikonov, ha detto che l’Ucraina non “vivrà abbastanza” per vedere il proprio ingresso in Europa.

Sulla sovranità dell’Ucraina, quindi, si giocano gli equilibri continentali. È del resto chiaro – dopo le proteste di Piazza Maidan nel 2014 per la mancata ratifica dell’accordo di associazione fra Kiev e Bruxelles, seguite dalla prima fase del conflitto nel Donbass – che il rapporto fra Ucraina e Ue preoccupa Mosca quanto o più di un ingresso dell’Ucraina nella Nato, che non è mai stato realistico.

Il timore vero è quello di un contagio democratico, che indebolisca il regime autoritario russo. Si può aggiungere che Mosca non ha mai capito – negando qualunque legittimità a una identità nazionale ucraina distinta dalla Russia – le pulsioni pro-europee di una popolazione ritenuta non solo parte della propria sfera di influenza ma a tutti gli effetti “cosa propria”.

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