Draghi irritato dai giochi 5S, in ballo il destino d’Europa

Annalisa Cuzzocrea

Alla fine a impuntarsi è stato Mario Draghi. Alle nove e mezzo di sera, quando a Palazzo Chigi è stata inviata l’ennesima riscrittura di un testo limato fino alle virgole per accontentare le richieste del Movimento 5 stelle, il presidente del Consiglio ha detto: «No, a questo punto vediamo domani». Cioè stamattina alle 8:30, quando i rappresentanti dei gruppi si incontreranno di nuovo con il sottosegretario agli Affari europei Enzo Amendola per siglare l’intesa finale sulla risoluzione di maggioranza da presentare prima della partenza del premier per il Consiglio europeo.

La riunione negli uffici del Senato è durata sei ore. Da una parte la delegazione M5S guidata dalla capogruppo a Palazzo Madama Mariolina Castellone, dall’altra quella del Pd e delle altre forze di maggioranza. «Siamo a un passo», hanno detto i partecipanti per tutto il pomeriggio, ma quell’ultimo passo non si è riuscito ancora a compierlo. È una questione di virgole, di rimandi legislativi, di passaggi tabù. Il primo da superare è il riferimento al decreto Ucraina, quello che autorizza l’invio di armi fino a fine anno. Palazzo Chigi pretende ci sia. I 5 stelle non lo volevano: quel che hanno chiesto fin dal primo momento è di vincolare il governo a un passaggio parlamentare in caso di nuovi aiuti militari.

«Conte non vuole rompere su questo», è il refrain di chi ha il mandato a trattare. Ma il presidente M5S pretende una cosa che il premier non è disposto a concedere. E cioè di costringerlo a un passaggio parlamentare prima di decisioni chiave sulla crisi ucraina.

È come se i due, nonostante la miriade di emissari e l’esistenza del telefono, non riuscissero a comunicare. Da giorni Draghi aveva spiegato che quel passaggio era per lui «inaccettabile». E da giorni i 5 stelle dicevano che per loro un nuovo passaggio in Parlamento era obbligato. Come si esca da qui è difficile dirlo. Luigi Di Maio è stato accusato dai suoi e anche da alcuni alleati di aver descritto una contraddizione che non esisteva, di aver complicato la mediazione con un’uscita scomposta contro il Movimento rappresentando un anti-atlantismo inesistente. Di sicuro, il capo della Farnesina ha fatto i suoi calcoli. Ma la fatica su un documento che doveva essere molto semplice, affidando al premier italiano il mandato di fare quel che serve in accordo con gli alleati europei per aiutare il popolo ucraino, dimostra che l’ex capo politico M5S non ha inventato nulla. La distanza è reale. La difficoltà del governo ad andare avanti in modo coeso su una crisi le cui conseguenze sono già nelle case degli italiani, in termini di inflazione, aumenti del costo dell’energia e paura di ritrovarsi coinvolti nel conflitto, è ormai provata.

Conte e i suoi vicepresidenti, i più aggressivi nei confronti di Di Maio e della sua linea in politica estera, continuano a ripetere che a parlare deve essere solo la diplomazia e che solo in quel senso il nostro governo deve aumentare gli sforzi. Non hanno raccolto le aperture di Draghi, il desiderio di pace italiano ed europeo espresso nella visita al presidente degli Stati Uniti Joe Biden, l’impegno diplomatico dimostrato anche dal prossimo viaggio in agenda, ad Ankara dal 5 al 7 luglio. Così come non hanno ascoltato le parole di ieri di Volodymyr Zelensky che al Parlamento italiano dice: «Aiutateci».

Dal canto suo Palazzo Chigi non ama essere impegnato in estenuanti mediazioni sulle virgole dei testi per dare l’impressione a Giuseppe Conte e ai suoi 5 stelle di aver ottenuto una vittoria o un vantaggio. Il rapporto è a dir poco estenuato. Perché anche se il presidente M5S continua a ripetere che non metterà mai in dubbio atlantismo ed europeismo e che anche il Movimento sta senza esitazione dalla parte dell’Ucraina, cioè degli aggrediti, le sue parole di questi giorni hanno seminato più di un dubbio nella testa di Draghi e di chi lo circonda.

Il premier non ritiene di poter svolgere a pieno il suo ruolo in una crisi già complicatissima se la forza politica più numerosa della sua maggioranza si esprime continuamente in senso contrario. Non si tratta di non rispettare la democrazia parlamentare, ma di essere in grado di prendere impegni a livello europeo e internazionale senza rischiare di vederli sconfessati un giorno dopo dalle discussioni tra i partiti.

Del resto, quel che ripete da giorni è che «i progressi verso la pace si possono fare solo se si va avanti uniti, sia in Italia che in Europa», e di unità nelle ultime ore non se ne è vista per niente.

La preoccupazione del presidente del Consiglio comprende ovviamente anche quel che è accaduto in Francia: Emmanuel Macron, che già aveva avuto un atteggiamento altalenante rispetto alla richiesta dell’Ucraina di entrare nell’Unione europea, potrebbe essere ancora più tiepido dopo il voto di domenica e la rivalsa della sinistra “insoumise” di Mélenchon e della destra estrema di Marine Le Pen. Olaf Scholz ha altrettanti problemi con la sua maggioranza in Germania, oltre a storici legami di interessi con la Russia di Vladimir Putin. Il ruolo di Draghi era quello di spingere gli alleati europei in una direzione chiara a favore del governo di Kiev per far arrivare l’Ucraina al tavolo della pace nelle migliori condizioni possibili. Se non avrà neanche lui la libertà di farlo, l’intero quadro rischia di deteriorarsi e le promesse della presidente del Parlamento europeo Metsola e della presidente della commissione Ursula von der Leyen rischieranno di restare lettera morta.

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