M5s, il senso di una fine
Giuseppe Conte era partito lancia in resta per piegare il governo sull’Ucraina. Ha finito con il perdere una sessantina dei suoi parlamentari, senza peraltro ottenere nessun cambio di linea in politica estera. Il Parlamento ha deciso che l’Italia resta impegnata, insieme e al pari degli altri grandi Paesi europei, a difendere in ogni modo l’Ucraina, aggredita da Putin. Ma il partito di maggioranza relativa non c’è più: si è spaccato, scisso, ha perso il ministro degli Esteri che si è fatto un gruppo a sé, precipitando così nelle convulsioni finali di una crisi che durava da tempo e che era già diventata manifesta nelle urne. Di Maio, il «capo politico» dei tempi felici quando i voti grandinavano, è ora un nemico. La rivoluzione a cinque stelle, cominciata nelle urne nove anni fa, si è forse conclusa ieri in Parlamento.
Con l’aggravante che mai, durante queste settimane, si è avuta la sensazione di un vero, sincero, nobile dibattito di politica estera. Ma piuttosto di una guerra intestina per procura, nella quale la sorte dell’Ucraina valeva più o meno come la questione del terzo mandato dei parlamentari. Il pacifismo di Conte risulta posticcio in un ex premier che ha firmato con Trump l’impegno ad accrescere la spesa militare italiana fino al 2%.
Fa così il paio con il pacifismo di Salvini, rimesso frettolosamente nel cassetto dopo l’insuccesso alle amministrative. Di Maio, che era già sull’uscio da tempo, ha evidentemente preferito andarsene sulla politica estera, e non ha offerto vie di fuga all’avversario, imprudentemente lanciatosi su una strada che non avrebbe potuto percorrere fino in fondo perché portava alla crisi di governo. Mentre questo esecutivo non ha alternative da qui alla fine della legislatura.
È l’esito dello psicodramma di ieri e delle ore convulse che l’hanno preceduto. E ciò che è più paradossale è che era un esito scontato. Non si cambia posizione nel pieno di una guerra, smentendola nemmeno tre mesi dopo averla votata ad amplissima maggioranza in Parlamento, se non si vuol essere un paese da operetta. Né il regime parlamentare, nel quale l’esecutivo riceve il mandato dalle Camere e poi governa, poteva essere sostituito con un regime assembleare, in cui non governa più l’esecutivo ma le risoluzioni parlamentari (e Conte, che ha gestito la pandemia a furia di Dpcm, avrebbe dovuto saperlo meglio di chiunque altro).
Così, proprio mentre in Francia le forze politiche più radicali ed estreme ottengono il miglior risultato elettorale di sempre, in Italia conoscono una grave crisi di prospettive e di consensi. Pandemia, guerra, inflazione, che hanno gonfiato le vele di Mélenchon e di Marine Le Pen, sembrano invece sgonfiare le gomme ai Cinquestelle e anche alla Lega, i due corrispettivi cisalpini.
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