Kaliningrad, la nuova Danzica pretesto per la guerra totale
Domenico Quirico
Kaliningrad, eccola pronta la Danzica di Putin. Se l’autocrate di Mosca scatenerà la Terza guerra mondiale il pretesto lo troverà qui, non nel Donbass o in Crimea. In questo frammento di seconda guerra mondiale, in quella che era la Koenigsberg di Kant e degli splendori dell’impero guglielmino. Nel genocidio toponomastico russo è stata intitolata a un eroe della rivoluzione d’Ottobre e zelante servitore dei tempi staliniani, diventando per i lunghi anni della guerra fredda una città proibita perché afflitta da basi navali e stabilimenti della industria militare, poi tagliata fuori da chilometri di Lituania e di Polonia. Il nome bolscevico è rimasto, perché questa città è per sempre Unione Sovietica. Ora una malaccorta, sciagurata decisione del governo di Vilnius (ma è possibile che sia soltanto sua, che abbia osato da sola?) ha bloccato il collegamento e l’ha isolata da Mosca offrendo un pretesto perfetto a Putin. Come la città baltica tagliata fuori dalle scempiaggini della pace di Versailles la offrì all’ennesimo, e quella volta fatale bluff di Hitler. Con le parole con cui Marx e Engels iniziarono «Il manifesto dei comunisti» si può mormorare «uno spettro si aggira per l’Europa». Dal corridoio di Danzica al corridoio di Kaliningrad: così nascono le guerre.
Sono stato a Kaliningrad nel 1998, un terribile, denso oceano da cui nessuno poteva tirarti fuori. La tomba di Kant era sempre lì, appoggiata alla cattedrale trecentesca ancora sventrata dalle bombe della Seconda guerra mondiale e dal furioso assedio dell’Armata rossa. Accanto c’era l’ex palazzo dei Soviet, un mostro cadente e arrugginito a cui i genieri russi fecero spazio con tonnellate di esplosivo necessarie per sventrare il palazzo reale. Era costato otto miliardi e settecento milioni di rubli degli Anni Sessanta, ma non è mai stato completato. Anche se le brochures dell’Inturist lo esaltavano come «un miracolo del cubismo sovietico».
Simboli e segni di una storia infausta: perché Kaliningrad è fisicamente una delle eredità maligne della seconda guerra mondiale e del disastro dell’Ottantanove sovietico. Era in quella tarda età eltsiniana che si preparava a scivolare in quella di Putin, al volgere del millennio, un monumento al disfacimento economico, politico, sociale, la prova di quanto male in termini di avidità e scempiaggine avevano lasciato i dieci anni di economia in caduta libera. Tutto si rarefaceva, appassiva, cadeva a brandelli.
Nulla era russo qui. Nessuna memoria, eredità, mitologia. decine di migliaia di tedeschi che abitavano in città fuggirono quando le truppe sovietiche cancellarono quella che si chiamava la Prussia orientale. Fuggirono su navi stipate all’inverosimile, in un esodo infernale, braccati dalle cannonate. Stalin realizzò uno dei suoi capolavori nelle manipolazioni da autocrate, vi trapiantò 300 mila russi, contadini prelevati con tartara disinvoltura nelle zone più devastate dalla guerra. Che occuparono case, terreni, negozi, fattorie.
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