La guerra e l’Unione Europea frenata dalle debolezze renane

di Paolo Mieli

Forse stavolta non è esagerato definire «storica» la decisione — solennizzata a Bruxelles — con cui il Consiglio europeo ha conferito all’Ucraina (e alla Moldavia) lo status di «Paese candidato» all’ingresso nella Ue. E, contemporaneamente, ha offerto alla Georgia la «chiara prospettiva» di un imminente passo nella stessa direzione. A riprova di tale storicità giungono da Mosca le ormai consuete offese di Dmitry Medvedev che ha definito i leader europei «politici di basso livello, fanatici e rabbiosi».

Accantoniamo gli insulti. Ma non possiamo sottrarci ad una riflessione sulla coppia dell’asse renano a cui, da tradizione, spetta la guida dell’Europa: il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuele Macron. I due uomini di Stato purtroppo sono stati costretti ad affrontare l’emergenza bellica in condizioni non ottimali. Per un mancato rodaggio della loro intesa. Per la necessità che ambedue hanno avuto di misurarsi con opinione pubblica e apparati recalcitranti ad un reale impegno a favore dell’Ucraina (un problema che abbiamo avuto anche qui in Italia). Per il peso di decisioni assunte nel più o meno recente passato che andavano in direzione opposta a quelle ritenute doverose per l’oggi (in particolare la Germania). Per l’essere stati obbligati a misurarsi in prove elettorali con competitori indulgenti nei confronti di Putin (in particolare la Francia). Per lievi difetti attinenti alle personalità di entrambi i leader.

Scholz — ha scritto su queste colonne Jonathan Littell con la franchezza che possono consentirsi solo i grandi scrittori — quando è il momento di consegnare armi all’Ucraina, «trascina i piedi». Assieme a gran parte della classe politica tedesca, il successore di Merkel mostra d’esser convinto — sempre secondo Littel — «che la soluzione alla dipendenza energetica del Paese nei confronti della Russia non sia quella di sottrarvisi, bensì di chiudere gli occhi e tornare pian pianino a soddisfare le proprie rovinose comodità». Un altro romanziere e poeta, Tahar Ben Jelloun è stato — se è possibile — ancor più sprezzante nei confronti di Macron ironizzando sulle sue telefonate al Cremlino («lui era contento di parlare, non sapremo mai se lo fosse anche Putin»). Per poi inchiodare il presidente francese in un giudizio impietoso: Macron sarebbe, ad ogni evidenza, «un bambino viziato», «non all’altezza» del compito storico assegnatogli.

Nei primi giorni a ridosso dell’invasione russa del 24 febbraio, era parso che l’Unione europea intendesse darsi un contegno assai dignitoso. Quasi si fosse finalmente convinta di dover adempiere ad una missione. E che, di conseguenza, ritenesse fosse giunta l’ora di dar prova d’unità di intenti. E soprattutto di carattere. Nessuno statista europeo avrebbe cercato riparo dietro le ritrosie ungheresi; anzi, stavolta tutti assieme avrebbero mostrato agli Stati Uniti di che pasta è fatto il nostro continente. Prendendo decisioni responsabili per la guerra e, successivamente, per le trattative di pace.

Poi, però, man mano che Joe Biden ha iniziato a ritirarsi dal proscenio, è apparso sempre più chiaro che i «grandi d’Europa», anziché raccogliere la bandiera della libertà dell’Ucraina e della lotta contro la sopraffazione russa, si sono rifugiati nei meandri delle procedure e delle discussioni economiche che da decenni sono la loro specialità. Procedure e discussioni che servono sostanzialmente a prender tempo, rinviare di Consiglio in Consiglio le decisioni, vantare come magnifici risultati di scarsa entità. Le questioni geopolitiche sono state rapidamente accantonate, tutto si è ridotto alla ricerca di un’applicazione il più possibile indolore delle sanzioni alla Russia. Con il prevedibile risultato che difficoltà economiche post pandemiche, probabilmente inevitabili, verranno percepite dai nostri popoli come conseguenza esclusiva delle sanzioni. E che il comune sentire dei singoli Paesi d’Europa prima o poi approderà, alla chetichella, sul terreno (già abbondantemente arato negli ultimi otto anni) delle furbizie atte ad aggirare le sanzioni stesse.

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