Quanto ci costa la svolta di Di Maio
Veronica De Romanis
«Non ci sono soluzioni facili a problemi complessi». «Lo studio e la competenza in politica servono». «Bisogna dire la verità». Così il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in occasione della conferenza nella quale ha annunciato la scissione dal Movimento 5 Stelle. Queste frasi, ai limiti dell’ovvietà, devono essere accolte con favore. E, speranza. Suggellano la fine di un percorso che ha condotto a un mutamento. Radicale. La protesta ha lasciato spazio all’ascolto; la radicalizzazione al compromesso. L’ex capo politico dei grillini è cambiato. Lo ha fatto in modo graduale. Negli anni, ha applicato il learning by doing, il metodo che consente di imparare sul campo. Un privilegio che la maggior parte dei giovani non ha. Chi cerca lavoro deve dimostrare di avere seguito un percorso di studio e avere acquisito qualche competenza, seppur generica. In politica, invece, è diverso. Il curriculum non è indispensabile, purtroppo. Con l’ascesa dei pentastellati lo è diventato ancora meno. “Uno vale uno” è stato lo slogan che ha contribuito alla loro vittoria nel 2018. E, così nei palazzi romani è aumentata, se possibile, la quota di politici privi di esperienza e competenza. Eppure, il nostro Paese avrebbe un disperato bisogno di leader capaci di gestire la complessità e le sfide del mondo contemporaneo e di coglierne le opportunità. Di Maio lo ha capito. Si è adattato. In questi mesi al governo con Mario Draghi è diventato un politico (di professione) apprezzato in patria e all’estero. Meglio così. Resta, tuttavia, da chiedersi quale sia il prezzo di tutto ciò. Il suo learning by doing non è gratis. Almeno non lo è per i contribuenti. Gli errori compiuti (prima dell’applaudita conversione) hanno un costo in termini di spreco di risorse pubbliche e mancata crescita economica. Per provare a fare qualche calcolo si deve – inevitabilmente – partire dal reddito di cittadinanza. La misura fu introdotta poco prima delle elezioni europee del 2019 con l’obiettivo ambizioso di «eliminare la povertà». Lo sentenziò lo stesso Di Maio dal balcone di Palazzo Chigi. A oggi, i risultati raggiunti non sono stati quelli sperati. Il sussidio non ha eliminato la povertà. Il 70 per cento di chi lo ha ricevuto per la prima volta tra aprile e giugno del 2019 è ancora beneficiario a fine 2021. Non è andato a chi ne aveva più bisogno. Il 56 per cento di chi è in povertà assoluta non lo riceve. E, infine, non ha contribuito a ridurre la disoccupazione. Solo una piccola parte degli occupabili (ossia coloro che possono svolgere un lavoro) ha trovato un impiego.
Questi esiti non devono stupire. Che cosa ci si poteva aspettare da una misura introdotta senza aver riformato i centri per l’impiego e, ancor più grave, rafforzato i servizi sociali? La spesa complessiva ammonta a circa 22 miliardi. È in crescita e, difficilmente, potrà essere ridotta. Non ci è riuscito neanche Draghi. Oltre a un uso inefficiente e iniquo delle risorse pubbliche, il metodo dell’apprendimento sul campo ha un costo anche in termini di instabilità. E, quindi, di un minore tasso di sviluppo del Paese. Sotto questo aspetto, l’esempio migliore riguarda il posizionamento di Di Maio sull’appartenenza dell’Italia all’Unione monetaria europea. Quando era vicepremier del governo Conte 1 sosteneva che l’euro era il motivo per cui «l’Italia ha perso il 25 per cento di ricchezza nazionale». Di conseguenza, in un eventuale referendum consultivo, avrebbe votato a favore dell’uscita dalla moneta unica. Una volta a capo della Farnesina, si è ricreduto. Purtroppo per noi, però, la sua convinzione ha avuto un costo: circa 20 miliardi di maggiore spesa per interessi da sostenere nei prossimi anni. La stima è stata elaborata dall’Osservatorio dei Conti pubblici della Cattolica di Milano. Come si è arrivati a questa cifra monstre? È sufficiente calcolare l’impatto che l’impennata dello spread durante i mesi del Conte 1 (oltre 330 punti base) ha avuto sulle finanze pubbliche. In particolare, nell’autunno del 2018, quando fu presentata una manovra che non rispettava – praticamente – nessuna delle regole di bilancio europee. A cominciare da quella (il cosiddetto Fiscal Compact) sul disavanzo strutturale, ossia il disavanzo depurato dagli effetti del ciclo economico. Senza entrare in tecnicismi inutili, ciò che è opportuno ricordare in questa sede è la reazione di chi compra il debito – forte tensione – e quella dei leader a Bruxelles – forte preoccupazione. I fatti sono noti. A fronte di turbolenze crescenti sui mercati finanziari che minavano i risparmi delle famiglie, il governo dovette ridurre il deficit: dal 2,4 al 2,04 per cento del Pil. Cifre scelte non a caso: l’obiettivo era quello di dare l’impressione che nulla fosse cambiato. Del resto, agli italiani più distratti 2,4 e 2,04 potevano sembrare molto simili. E, invece c’erano oltre 7 miliardi di differenza.
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