L’Occidente unito manda un segnale allo zar
La democrazia sarà anche un esercizio complicato e difficile. Ma il messaggio di unità e determinazione che gli alleati occidentali lanciano a Vladimir Putin in queste ore non può essere equivocato. In una sorta di grande slam iniziato la scorsa settimana al Consiglio europeo a Bruxelles, proseguito al G7 chiusosi ieri sulle Alpi bavaresi e giunto oggi all’appuntamento conclusivo del vertice Nato a Madrid, l’Occidente dice al leader del Cremlino che è pronto a contrastare le sue mire imperiali e la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina «per tutto il tempo che sarà necessario». E che intende far salire i costi politici e economici che il capo Cremlino deve affrontare, in modo da costringerlo un giorno a sedersi al tavolo del negoziato.
Che poi le nuove misure e sanzioni messe in cantiere contro Mosca abbiano ancora bisogno di tempo per essere operative, come il price cap su gas e petrolio fortemente voluto da Mario Draghi, toglie poco al valore di questo risultato. Sul piano della tempistica, in primo luogo. Dopo l’escalation su Kaliningrad e l’annuncio di Putin di voler consegnare i missili Iskander alla Bielorussia, eventualmente armati di testate nucleari, era assolutamente necessario mandare un segnale chiaro, in grado di rompere i calcoli dello Zar.
Il quale sembra avvertire la pressione. Proprio ieri ha iniziato il suo primo viaggio all’Estero da quando è cominciata la guerra, diretto ad Ashgabat, in Turkmenistan, per un vertice dei Paesi del Mar Caspio. Prima però Putin ha trovato il tempo di ribattere piccato a Draghi, il quale citando il presidente indonesiano, aveva escluso la sua presenza al G20 di novembre a Bali: «Non decide il premier italiano sulla partecipazione di Putin al vertice», ha detto il suo consigliere Jurij Ushakov. Se non è nervosismo questo.
Due figure di leader emergono dal vertice di Elmau. Quella del presidente americano Joseph Biden, che ha fatto della compattezza e dell’unione delle democrazie occidentali nel sostegno all’Ucraina il suo tema, restituendo agli Stati Uniti un ruolo di guida: senza la forza militare, economica e politica americana l’Occidente non ci sarebbe. E senza le armi fin qui fornite dagli Stati Uniti, la causa ucraina sarebbe già finita.
Ma questo non può e non deve significare affidarsi in tutto e per tutto all’America, tanto più che gli equilibri politici degli Stati Uniti sono così fragili da rendere perfettamente plausibile anche un ritorno dell’incubo Trump al potere fra meno di tre anni. Per questo è stato importante che dopo alcune false partenze, anche il cancelliere tedesco Olaf Scholz abbia fatto la sua parte. Superate le incertezze sulle forniture d’armi tedesche all’Ucraina, Scholz ha saputo interpretare bene il ruolo di presidente di turno del G7. Non ultimo, cercando di ampliarne il raggio d’azione, con l’invito ai leader di Senegal, Indonesia, India, Argentina e Sud Africa, nel tentativo di trovare punti in comune con quei Paesi che non si sono schierati e continuano ad avere rapporti con Mosca. È un modo per definire una «Gestaltungswille», una volontà creativa europea. Ed è una strada che Mario Draghi considera valida anche per il futuro: «Se si vuole che i nostri temi, come la difesa delle democrazie e il rifiuto delle autocrazie, si diffondano, occorre avvicinare e rendere compartecipi anche altri Paesi».
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