I due nodi dei partiti più forti
Le amministrative non possono dirci cosa accadrà quando si terranno le elezioni politiche. Se non altro perché l’astensione, presumibilmente, sarà più bassa e le situazioni locali non peseranno sugli orientamenti di voto. Come i sondaggi, esse confermano solo che i principali sfidanti saranno Fratelli d’Italia e il Partito democratico. La frammentazione partitica resterà forte, la somma dei voti dei due partiti maggiori, plausibilmente, non raggiungerà la metà dei voti validi. Ma essi saranno, l’uno per l’altro, l’avversario da battere. Ciascuno dei due partiti ha oggi, accanto a elementi di forza, anche qualche seria debolezza. Mentre la sua posizione sull’Europa è il tallone d’Achille di FdI, il cosiddetto «campo largo» è quello del Pd.
A differenza dei suoi (confusi) partner del centrodestra, Giorgia Meloni ha conferito al suo partito caratura e piglio di forza di governo con la decisa scelta atlantista in difesa dell’Ucraina. Adesso FdI (al pari del Pd) è un partito che ha acquistato un forte credito presso i nostri alleati occidentali. Chi pensa che in politica queste cose contino poco è afflitto da provincialismo. A dispetto delle apparenze, e di ciò che è accaduto in queste amministrative, è possibile che FdI riesca anche a presentarsi alle elezioni con uno schieramento di destra relativamente coeso. A causa del fatto che la stella politica di Salvini sembra al tramonto. Con Forza Italia e con una Lega in cui tornino a contare i presidenti di Regione e gli amministratori locali, forse non sarà difficile per FdI trovare intese su questioni strategiche come, per esempio, tasse o politica dell’immigrazione.
L ’Unione europea, invece, è una specie di macigno sulla strada che conduce a Palazzo Chigi. La difesa della «sovranità nazionale» e la conseguente postura polemica nei confronti dell’«Europa che c’è» sono per FdI elementi identitari. Un po’ come lo ius soli o il sostegno al movimento Lgbt per il Pd. Ma la differenza è che mentre ius soli e battaglie Lgbt, quali che possano esserne gli effetti di lungo termine sulla società, non incidono sul gioco degli interessi qui ed ora, non hanno un rapporto immediato con il tenore di vita degli italiani o con l’andamento della vita economica, le posizioni che si assumono sull’Europa hanno, eccome, un rapporto diretto e immediato con tutto ciò.
Come ha scritto Sergio Fabbrini (Il Sole 24ore, 26 giugno), a causa della stretta interdipendenza fra i Paesi europei, è un grave errore trattare il tema dell’Europa come se avesse a che fare con la «politica estera». L’Unione europea e tutto ciò che la riguarda sono ormai parte integrante della politica interna. Per accettarlo FdI dovrebbe fare un piccolo strappo identitario, dovrebbe riconoscere che, a differenza dei secoli passati, sovranità e interesse nazionale non coincidono. Ormai si difende l’intereresse nazionale partecipando al gioco dell’integrazione, non tentando di allentarne i vincoli. E occorre l’autorevolezza per riuscirci. Non è andando lancia in resta contro l’Europa che Mario Draghi ha spianato la strada per l’Ucraina nella Ue o che ora sembra riuscire nell’impresa di spingere una Germania indecisa a tutto a porre un tetto al prezzo del gas. Non è che FdI debba fare abiure ma qualche seria correzione di rotta sì. Quale che sia la compatibilità con l’appartenenza al gruppo dei conservatori europei. Se andrà a Palazzo Chigi Meloni non potrà inseguire fantomatiche «confederazioni». Dovrà piuttosto gestire al meglio, in stretta cooperazione con le autorità di Bruxelles e gli altri governi europei, i fondi del Pnrr. Quando si va al governo finisce il tempo della poesia e comincia quello della prosa.
L’Europa non è certo un ostacolo per il Partito democratico. Esso è partito europeista per antonomasia. In realtà, proprio la Nato (date le posizioni ostili che persistono in certe aree della sinistra) avrebbe potuto essere per il Pd un problema ma la decisa posizione assunta da Enrico Letta sull’Ucraina ha sgombrato il terreno da ogni equivoco. Il Pd ha il vantaggio di essere da tanti anni (salvo il breve periodo giallo-verde) forza di governo. Nella prossima campagna elettorale dovrà guardarsi dall’accusa, che certamente il centro-destra gli scaglierà contro, di volere la patrimoniale. In un Paese di ceto medio diffuso e di proprietari di case, se il sospetto si diffonderà per il Pd la sconfitta sarà pressoché sicura.
Ma il suo vero punto debole è la politica delle alleanze. Qui gioca un vecchio riflesso, una tradizione che risale ai tempi del Partito comunista. I comunisti, durante le campagne elettorali, non presentavano programmi. Era l’ideologia il programma. Essi si limitavano a chiamare a raccolta gli elettori «contro il potere democristiano». La conventio ad excludendum, la convenzione che escludeva la possibilità che il Pci andasse al governo, lo esimeva dal presentare proposte concrete. Era sufficiente fare promesse di «grandi trasformazioni» che, comunque, il Pci non sarebbe mai stato chiamato a mantenere. Echi del passato ritornano quando esponenti del Pd ci spiegano che un’alleanza con i 5Stelle (magari imbarcando anche Renzi e Calenda) è oggi necessaria «per battere le destre». Ma batterle per fare cosa? Un’alleanza fra forze così eterogenee, una alleanza solo «contro», costruita all’unico scopo di «battere le destre», nelle nuove condizioni, ha ottime probabilità di contribuire a farle vincere. In una recente intervista Enrico Letta sembra consapevole del problema. Ma, per come si esprimono, diversi esponenti del suo partito non paiono averlo compreso. Finite le vecchie ideologie, se vuoi vincere le elezioni devi spiegare che cosa vuoi fare. E solo dopo, di risulta, devi dire contro chi sei. Qui la difficoltà per il Pd è indubbia. Si tratti di politica estera o di politica energetica (caso del termovalorizzatore a Roma) ci sono pochi temi su cui Pd e 5Stelle potrebbero concordare. Per non dire della possibilità di aggregare uno come Calenda, il cui credito presso settori del Paese dipende proprio dalla sua indisponibilità a stringere accordi con i vari populisti. Altro che campo largo.
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