Turismo: infradito e globalizzazione
Due volte a Firenze, e poi a Roma, in una settimana. Bello vedere tante infradito nella sala-colazione degli alberghi: gli americani sono tornati. Sono tanti, sono dovunque, sfidano il caldo con eroismo e ammirevole sprezzo del decoro: l’importante, in vacanza, è stare comodi, non essere eleganti.
Ci stimano, in fondo. Noi italiani siamo quello che loro vorrebbero essere, almeno ogni tanto: ma non osano.
Il ritorno dei turisti americani dovrebbe farci riflettere, tra un litigio e l’altro. Vederli di nuovo fra noi, dopo tre anni, è rassicurante. Non soltanto l’Italia gode, negli Stati Uniti, di un fascino inossidabile, capace di produrre belle sensazioni e brutti film («Amore & Gelato», un tentativo di coniugare Stendhal e i maritozzi con la panna). I turisti americani — per visibilità, per numero e per capacità di spesa — si fanno sentire. Ho rivisto a Roma taxisti sorridenti, ed è tutto dire.
Lo stesso vale per i turisti europei. Firenze, sotto il sole a picco, risuona nuovamente di lingue e ciabatte. Suggerisco un esercizio di antropologia culturale: indovinare la nazionalità di una persona (di una famiglia, di un gruppo) prima che apra bocca. Quest’anno è più facile perché i cinesi sono pochi, e i russi mancano del tutto. Chi, in Italia, aveva scelto di puntare tutto su di loro, oggi piange lacrime amare, ma dovrebbe farsi un esame di coscienza. Quel tipo di clientela è tanto remunerativa quanto inaffidabile. Stavolta è stata la guerra ad allontanarla. Ma basta anche una moda o un capriccio. I russi colti e informati amano l’Italia; i russi arricchiti e ammanicati pensavano di potersela comprare. Per colpa dei secondi, abbiamo perso anche i primi.
Pages: 1 2