Orlando: “Stop ai contratti del lavoro povero. Il taglio del cuneo da solo non basta”

Fabio Martini

ROMA. Andrea Orlando, ministro del Lavoro e delle politiche sociali, capofila della sinistra Pd, da sempre attento al dialogo con i Cinque stelle, in questa intervista a La Stampa non ricorre a perifrasi in politichese né sui temi politici né sui provvedimenti che dividono i partiti: «Oggettivamente il rischio di un incidente sulla strada del governo c’è» e proprio per questo, visto che «si è deciso di mettere le carte in tavola, giusto andare a vederle». Perché ad esempio, annuncia il ministro, sul tema del lavoro povero, del salario minimo e della retribuzioni basse, «è pronta una proposta che tiene assieme i tre problemi», sulla quale le parti sociali saranno chiamate a pronunciarsi nei prossimi giorni. E in ogni caso, avverte Orlando, attenzione a chi avesse la tentazione di rompere, Cinque stelle o anche la Lega, perché una divergenza politica, anche forte, sta nelle cose, ma la storia insegna che di solito chi rompe paga.

Ministro, i Cinque stelle non hanno rilanciato sui temi divisivi – armi e termovalorizzatore di Roma – ma resta legittimo il sospetto che abbiano iniziato a tirare la corda, per prepararsi a romperla…

«Anche se nessuno avesse intenzione di rompere, il rischio che la corda si spezzi è nell’ordine delle cose possibili. La storia ce lo dice: anche non volendo, ad un certo punto le cose possono precipitare. E quindi oggettivamente il rischio dell’incidente esiste, come potevamo prevedere con l’approssimarsi delle elezioni. Da questo punto di vista la gestione politica diventa più complicata e va rafforzata».

In un contesto nazionale e internazionale delicatissimo, quasi senza precedenti nel dopoguerra, una eventuale rottura politica non avverrebbe su grandi questioni concrete e di principio, non le pare?

«Per quanto siano comprensibili le esigenze di parte o persino l’occhio ai sondaggi, spero che nelle prossime settimane si tenga conto del vero interesse generale. Guardi, questo non significa affatto dover rinunciare al confronto e al conflitto politico anche duro, ma stiamo attenti a collegare questo confronto ai temi reali del Paese. Altrimenti si rischia non solo di mettere a repentaglio la stabilità, ma la credibilità stessa delle istituzioni. Voglio essere chiaro: si può correre il rischio di rompere su una grande questione sociale, ma farlo su questioni simboliche, questo allargherebbe ancora di più il solco tra eletti e opinione pubblica».

Non pensa che i Cinque stelle “vestano” con istanze sociali una gran voglia di rompere e di riprendersi un’identità in vista delle elezioni?

«Per ora, va detto, che l’accento è stato posto sui temi meno divisivi. E considero un fatto positivo che i Cinque stelle, come aveva fatto il Pd, abbiano posto all’attenzione politica un’agenda sociale. Non avremo forse sempre le stesse risposte, ma almeno ci facciamo le stesse domande».

Nessuno ricorda il precedente, ma non pensa che una rottura pretestuosa o massimalista dei Cinque stelle possa riprodurre lo stesso destino che colpì la sinistra radicale di Bertinotti nel 2008 dopo la rottura dell’Unione? Era un’area elettoralmente significativa, da allora sono restati frammenti…

«Penso che un rischio ci sia sempre da parte di chi strappa senza una ragione forte. C’è il rischio di pagare un prezzo più alto del previsto, perché non è detto che la convenienza immediata sia anche remunerativa dal punto di vista elettorale. Ora c’è un paletto in più: il riavvio del dialogo sociale, con la convocazione dei sindacati, che sto chiedendo da molto tempo, e questo in qualche modo apre un altro file: se la politica si disinteressa dell’esito di quel dialogo, beh rischiamo di pagare un prezzo più alto…».

In che senso?

«Nel senso che se il governo apre una discussione su temi sociali così impegnativi come quelli dell’occupazione e del mercato del lavoro e invece si produce una rissosità crescente che non tiene conto di quel dialogo, allora si rischia un ulteriore cortocircuito….».

Come dire: ai Cinque stelle potrebbe interessare rompere per rompere, anche se sul concreto è possibile un accordo su temi delicati?

«Senza inneggiare alla stabilità fine a se stessa, ma ora che si sono scoperte le carte, andiamo a vederle! Perché se si strappa il quadro, prima ancora che si scoprano le carte, il rischio è quello di un cortocircuito. Per capirsi: se non si riesce più a governare, non è un obbligo andare sino in fondo e si può anche votare. Ma bisognerebbe farlo dopo aver preso atto dell’impossibilità di dare risposte sui problemi del Paese».

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