Conte-Draghi, c’eravamo tanto odiati
Annalisa Cuzzocrea
Se fossimo a Sanremo, se fossero canzonette, diremmo che non c’è feeling. Non c’è chimica. Così Giuseppe Conte si è seduto di fronte a Mario Draghi nelle stanze di Palazzo Chigi che un tempo erano il suo regno – lo sono state per due governi – ha accettato un caffè e un bicchiere d’acqua, ma invece di cominciare con schiettezza e chiedere: «Mario, perché volevi che Grillo scegliesse Luigi e non me?», ha tirato fuori una lettera. Un documento che ha illustrato per quaranta minuti col tono ineffabile del professore che spiega la lezione. O se si preferisce vederla con romanticismo, dell’innamorato ferito che porta al cospetto di chi non l’ha amato abbastanza un lungo cahier de doléances, parlando ormai più a se stesso e ai suoi, attento al consenso da recuperare più che a un rapporto da ricostruire.
Si è soffermato su tutti i punti, l’ex premier. Poi, è passato alle colpe di Luigi Di Maio, senza però tirar fuori il sospetto che dietro la scissione ci sia una regia di Palazzo Chigi, come fatto filtrare negli ultimi giorni dai vertici M5S. In realtà, nessuna delle accuse ventilate sui giornali è stata ripetuta a quattr’occhi, perché non c’è schiettezza nel rapporto tra Mario e Giuseppe. Neanche adesso che si danno del tu e si chiamano per nome, neanche dopo uno scontro a distanza talmente acceso da far prefigurare chissà quale guerra dei mondi. Tanto che è Draghi a dover dire, non interpellato sul punto: «Vorrei fosse chiaro che non ho mai chiesto a Grillo di toglierti la guida del Movimento, né di sostenere qualcun altro».
E così Conte spiega, senza perdere il filo del documento. L’altro ascolta, ogni tanto fa qualche battuta di rimando: «Questo lo penso anch’io e lo sai», sul reddito di cittadinanza. Oppure: «Ma io cosa posso farci?», sulla vicenda di un ministro degli Esteri che nel mezzo di una risoluzione parlamentare delicatissima consuma il più alto dei tradimenti nei confronti della sua forza politica.
«Il clima era di pace, non di tregua», dicono a Palazzo Chigi dopo l’incontro. Ma non potrà mai esserci pace in un rapporto nato sotto cattivissime stelle. Non è dato in natura, così come non era dato in natura che Di Maio e Conte potessero convivere a lungo nello stesso partito. Qualunque cosa Draghi cerchi di concedere nelle prossime settimane, per l’ex premier non sarà mai abbastanza. Perché la sua convinzione, che non è cambiata neanche ieri, è che tutto quel che il presidente del Consiglio ha fatto da quando ha preso il suo posto sia stato smantellare il suo operato. E che non abbia mai rispettato il suo ruolo di capo politico dei 5 stelle, preferendo intrecciare un rapporto più stretto con Beppe Grillo e con Luigi Di Maio.
Il disamore, però, è cominciato prima. Il 5 settembre 2020, quando il nome di Draghi tornava sui giornali come “rivale” di un Conte due già in difficoltà, l’ex premier lo pensionò con poco riguardo: «Lo avrei visto bene come presidente della commissione Ue – raccontò a una festa del Fatto quotidiano – ma mi disse che era stanco e voleva riposarsi un poco e non era disponibile per questo incarico. Quindi credo che lo stiano tirando per la giacchetta».
La storia insegna che non era così. Ma la storia racconta anche che fosse stato per Conte, le cose sarebbero andate diversamente. A dare il via al governo Draghi, grazie alla tessitura del presidente della Camera Roberto Fico e del già allora nemico Luigi Di Maio, è stato Beppe Grillo nell’incontro che ebbero alla Camera. Dal quale uscì raccontando dell’ex banchiere centrale: «È un grillino!». Provò a resistere fino all’ultimo, l’ex premier. I suoi fedelissimi premevano per non entrare nell’esecutivo, a partire da Stefano Patuanelli che cercò di convincere gli altri parlamentari. Senza riuscirci. Da quel momento, niente poteva andare bene. La prima mossa di Draghi è stata scegliere come sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, che era stato costretto a dimettersi da capo di gabinetto del ministero dell’Economia proprio per le pressioni dei 5 stelle. Convinti, tutti, che fosse il capo di gabinetto dell’allora ministro dell’Economia Giovanni Tria – siamo nel 2018 – a remare contro il reddito di cittadinanza. Chi conserva i WhatsApp di quei giorni ricorda bene la rabbia dell’entourage di Conte nei confronti del “trio Giorgetti-Tria-Garofoli”. E anche, l’audio di Rocco Casalino, poi pubblicato sui giornali, in cui il portavoce del premier diceva che il 2019 sarebbe stato dedicato a «far fuori tutti questi pezzi di m….del Mef».
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