Conte-Draghi, c’eravamo tanto odiati

Non era cominciata sotto i migliori auspici, è continuata con la rimozione di Domenico Arcuri dalla gestione commissariale della pandemia e ora di Invitalia, con la cacciata di Fabrizio Palermo da Cassa depositi e prestiti, con la sostituzione del capo del Dis Gennaro Vecchione con la “dimaiana” Elisabetta Belloni (c’è stata una qualche malizia, da parte di Conte, nel sostenere proprio il nome di Belloni contro quello di Draghi per la presidenza della Repubblica). E poi via il cashback, attacchi diretti al superbonus, insomma mai Conte ha visto Draghi riconoscergli qualcosa di buono. E non è tipo da passarci sopra. Ha segnato, atto dopo atto. Si è comportato di conseguenza cercando un asse con Matteo Salvini per sbarrare al premier la strada per il Colle nel nome della continuità di governo. Ora però le ragioni per cui invocava quella continuità sembra averle dimenticate. Anzi, la parola d’ordine brandita ieri è quella cara a tutte le verifiche vecchia maniera: discontinuità.

«È una storia che va a finire», dicono tutti – ormai – anche tra gli alleati del Partito democratico. Il problema è quando accadrà. Se subito, nel voto al Senato sul decreto Aiuti, dove non ci si può esprimere separatamente su fiducia e provvedimento. O in autunno, su una finanziaria che si preannuncia difficile. A quel punto non si tratta più solo di capire quando si andrà a votare, ma come. Perché il fronte progressista sarebbe spaccato e sanguinante. E il centrodestra si ritroverebbe a brindare prima del tempo.

LA STAMPA

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