Povera Italia, l’Istat: uno stipendio su tre sotto i 1000 euro al mese

Paolo Baroni

ROMA. Per gli italiani, ci informa l’Istat, nelle ultime settimane la paura per il lavoro ha superato quella della guerra. Questo perché dopo due anni di pandemia, nonostante la ripresa importante dell’economia e consistenti interventi del governo a sostegno di famiglie e imprese, tutte le disuguaglianze (economiche, sociali, territoriali, intergenerazionali e di genere) sono diventate ancora più forti. E aver trascurato i problemi pregressi ha finito con l’esacerbare ancor di più le disuguaglianze strutturali del paese. Che in una fase di inflazione galoppane vedono aumentare la precarietà nel lavoro, calare il livello dei salari e di conseguenza aumentare il livello di povertà delle famiglie, nonostante l’argine del reddito di cittadinanza che ha «salvato» 1 milione di famiglie. Sul fronte demografico l’Istat conteggia 658 mila persone in meno, a causa del crollo dei matrimoni e delle nascite; sono cresciuti i giovani stranieri nati in Italia e – stima l’Istat – per effetto dello Ius scholae oggi potremmo contare 280 mila «nuovi italiani».

Adesso «la guerra in corso, con tutte le sue conseguenze economiche e sociali, rischia di indebolire il recupero economico del Paese e di accentuare al suo interno le disuguaglianze, già elevate» ha spiegato ieri il presidente del nostro istituto di statistica Gian Carlo Blangiardo illustrando la sua relazione annuale.

Precarietà record

Nel corso del 2021 il mercato del lavoro è tornato ai livelli del 2019, ma è cambiata in maniera significativa la sua composizione interna. In particolare è aumentata la quota di lavoro precario e sono peggiorate nel complesso anche le condizioni di lavoro. Il lavoro standard, dipendenti a tempo indeterminato e autonomi con dipendenti, entrambi con orario a tempo pieno, è calato verticalmente al 59,5% del totale degli occupati. I lavoratori indipendenti sono progressivamente diminuiti – da quasi un terzo degli occupati all’inizio degli anni ’90 a poco più di un quinto nel 2021 (circa 4,9 milioni). Di contro i lavoratori dipendenti a tempo determinato sono raddoppiati toccando quota 2,9 milioni. Negli anni è progressivamente aumentata la quota di occupazioni di breve durata: sempre nel 2021, quasi la metà dei dipendenti a termine ha un lavoro di durata pari o inferiore a 6 mesi. L’occupazione a tempo parziale è invece passata dall’11% al 18,6%. E nel 60,9% dei casi (il doppio della media Ue) questo part-time è involontario.

Quasi 5 milioni di occupati (il 21,7% del totale) sono classificati così come lavoratori «non-standard», cioè a tempo determinato, collaboratori o in part-time involontario. Tra questi, 816 mila sono sia a tempo determinato o collaboratori sia in part-time involontario. Si tratta per lo più di under 35, lavoratori stranieri, donne, occupati con licenza media, residenti nel Mezzogiorno e sono concentrati nel settore degli alloggi e ristorazione e in agricoltura (4 su 10), nel settore dei servizi alle famiglie (48,5%), in quello dei servizi collettivi e alle persone (31,9%) e in quello dell’istruzione (28,4%).

Salari diseguali

Il risultato è che circa 4 milioni di dipendenti del settore privato – il 29,5% del totale – percepiscono una retribuzione teorica lorda annua inferiore a 12 mila euro (sono quindi classificati a bassa retribuzione annua) mentre per circa 1,3 milioni di dipendenti – il 9,4% del totale – la retribuzione oraria è inferiore a 8,41 euro l’ora (sono a bassa retribuzione oraria). Tra questi, quasi 1 milione percepiscono meno di 12 mila euro l’anno e meno di 8,41 euro l’ora.

Per tutti ora, in assenza di rinnovo dei contratti, a fronte di un aumento del 6,4% dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo il rischio è quello di assistere ad una importante diminuzione delle retribuzioni in termini reali. Che, a fine 2022, tornerebbero addirittura sotto i valori del 2009.

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