Conte alza la tensione, il tema è «quando» uscire: non restiamo per farci schiaffeggiare
di Monica Guerzoni
Patuanelli: maggioranza solida anche senza M5S. Giovedì l’ipotesi di non votare il dl Aiuti
Venerdì, appena sceso dal palco di DigiThon a Bisceglie, Giuseppe Conte è stato avvicinato da alcuni ragazzi che gli hanno chiesto autografi e selfie: «Non mollare, presidente!». E il leader del Movimento, con un sorriso dolceamaro: «Tranquilli, io vado avanti… Non mi piego». In quelle tre parole sta chiuso lo stato d’animo dell’ex premier dopo il faccia a faccia con Mario Draghi e alla vigilia dell’Aventino parlamentare. Tre giorni fa i deputati del M5S hanno votato la fiducia sul decreto Aiuti e domani si asterranno. Ma per il regolamento di Palazzo Madama l’astensione equivale al voto contrario, per cui giovedì i senatori stellati potrebbero disertare l’Aula.
A tormentare Conte, tanto da fargli dire che non intende piegarsi, è la sgradevole sensazione di avere tutti contro. «C’è un pezzo di mondo economico e culturale che punta alla melassa e vuole far saltare l’alleanza progressista», è l’allarme che Conte ha condiviso con alcuni dirigenti dem. Anche così si spiega quel «faremo battaglie insieme al Pd per diversi anni» lasciato cadere da Stefano Patuanelli sulla soglia del Nazareno. Se il ministro dell’Agricoltura, ospite della scuola politica guidata da Gianni Cuperlo, ha blindato l’alleanza giallorossa affermando che «non è assolutamente a rischio», è perché condivide la preoccupazione di Conte: «Vogliono farla saltare».
Nel mirino dei contiani c’è, tra i tanti, Luigi Di Maio, ritenuto un fautore dell’unità nazionale anche per il 2023. «Insieme per il Futuro ha chiaramente detto che la loro volontà era rendere il M5S ininfluente — è la tesi di Patuanelli — Con la loro scissione ci sono riusciti a livello numerico. Ora non capisco perché la nostra eventuale uscita dal governo venga vista come un Papeete 2». Un teorema che si conclude così: «La maggioranza è solida anche senza di noi. Per il M5S il governo non è un poltronificio a vantaggio degli amici, per altri non lo so». In via di Campo Marzio, nel «fortino» di Conte, prende forma la convinzione che strappare non voglia dire far cadere il governo, né rompere l’alleanza con il Pd. Nonostante gli avvertimenti di Enrico Letta, i contiani ritengono inevitabile per i dem stringere un patto elettorale con il M5S. I «falchi» la mettono così: «Al governo abbiamo perso 8 punti, se usciamo possiamo arrivare al 20% e competere con la destra». Ormai la questione non sembra tanto il «se», ma il «quando». Rompere nel mezzo dell’estate rischiando un disastroso effetto Papeete, o aspettare settembre, quando «l’autunno nero» sarà alle porte?
Mediatori e pontieri sono al lavoro. Nel Pd Orlando, Provenzano, Boccia, Bonifei. Nel M5S D’Incà, Todde, lo stesso Patuanelli. E Speranza. A tutti l’ex premier ripete che «il documento non è una farsa». Da Palazzo Chigi l’avvocato aspetta «risposte vere e concrete, siamo una forza seria e non restiamo al governo per farci schiaffeggiare». Dove lo schiaffo sarebbe prendere tempo e andare avanti «come se nulla fosse».
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