Europa in fiamme tra inflazione, disagio sociale e nuovi populismi
Massimo Giannini
Viviamo un presente “retrotopico”. Perduta l’utopia, ci rifugiamo nella nostalgia. Nel mondo, ormai da quasi cinque mesi, c’è di nuovo la guerra. L’Angelo della Storia di Walter Benjamin, con il viso rivolto al passato e una catastrofe di morti e rovine ai suoi piedi, non riesce più a spiccare il volo verso il futuro. Così ci stiamo abituando anche a questo: l’orrore del Donbass, i missili che piovono, i civili che muoiono. Tutto è già quasi routine, almeno per la nostra coscienza morale. Ma non per la nostra esistenza materiale. Del conflitto russo-ucraino valutiamo il costo economico, più che il conto delle vittime. Quanto rincara la bolletta del gas, il pieno di benzina, la spesa al supermercato? Quando scatteranno le restrizioni alle forniture di energia, di aria fredda o di acqua calda? Dove arriverà l’inflazione, la più ingiusta di tutte le tasse, che non ha pietà dei più deboli? L’Africa e l’Asia sono già in fiamme. Le immagini dello Sri Lanka, dove migliaia di disperati assaltano il lussuoso palazzo presidenziale e si tuffano nella piscina del rais Rajapaksa, non simboleggiano il Quarto Stato di Pellizza Da Volpedo che avanza e si emancipa dal bisogno. Sono piuttosto l’allegoria della ciclica, universale, feroce ribellione dei popoli contro le élite.
L’Europa, risparmiata (per ora) dai cannoni di Putin, rischia di trasformarsi in grande polveriera sociale. I governi, tra l’estate infuocata e l’autunno rovente che pare già cominciato, dovranno farsene carico. Le tensioni sociali e sindacali sono già esplose questa settimana. In Francia le agitazioni dei lavoratori hanno paralizzato per giorni l’aeroporto Charles De Gaulle, dove le file per i check-in si sono allungate in un solo giorno fino a due chilometri e mezzo.
Lo sciopero dei ferrovieri della Sncf ha paralizzato i treni Intercity e i regionali dei pendolari, ma anche i Tgv ad alta velocità. Tutti reclamano aumenti salariali doppi rispetto a quelli offerti dall’azienda, che oscillano tra il 2,2 e il 3,7 per cento: i sindacati chiedono l’allineamento all’inflazione, che Oltralpe è a quota 6,5 per cento. Una grana enorme per Macron, che rischia un’altra devastante stagione di gilet gialli sugli Champs Elyseés.
In Gran Bretagna, dove il carovita ha già sfondato il tetto del 9 per cento, è già partito un primo sciopero contro l’aumento della benzina lunedì scorso. Il sindacato dei macchinisti ha già indetto un referendum tra gli iscritti, per chiedere il via libera a una serie di scioperi nazionali: sarebbe il primo dal 1995, in un Paese dove gli stipendi sono fermi dal 2019. Un problema gigantesco per Boris Johnson, anatra zoppa che guida un governo-fantasma e che – come scrive il “Guardian” – descriveremo presto con le stesse parole usate dal Marco Antonio di Shakespeare per ricordare Giulio Cesare: “Il male che un uomo fa, gli sopravvive…”. Nei Paesi Bassi lo scontro è ancora più aspro, perché anticipa nel settore-chiave dell’agricoltura fratture che presto si apriranno a livello europeo anche nel settore auto. Gli agricoltori olandesi hanno paralizzato il Paese con mucche e trattori per contestare il taglio del 50 per cento alle emissioni inquinanti di ossido di azoto e ammoniaca, fissato dall’esecutivo nel 2030. Circolazione bloccata nelle campagne e scaffali vuoti nelle città. Intanto, nelle stesse giornate e per le stesse ragioni, i pescatori di gamberi hanno occupato il porto di Harlingen. Le rivolte contadine hanno un sapore antico, ma un valore moderno. Evocano la madre terra, il bestiame, il pane quotidiano, le rivoluzioni. La miccia è accesa sotto la poltrona di tutti i capi di Stato: non solo del premier Mark Rutte, finora troppo impegnato a guidare la resistenza dei “frugali del Nord” contro il price cap al gas russo, l’estensione del Next Generation Eu, la revisione del Patto di stabilità.
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