Maurizio Landini: “Io in campo ma senza un partito, non lascerò spazio alla destra”

LUCIA ANNUNZIATA

Ma non ci penso proprio», ride col suo vocione Maurizio Landini, «sarebbe come dichiarare la chiusura della Cgil». Beh, si effettivamente, «se a dicembre al Congresso, che è il momento del nuovo mandato, il segretario lasciasse per gettarsi in politica sarebbe una dichiarazione di morte del sindacato». Eppure, diamine, qualcuno deve pur star lì a chiedertelo, se è vero che tutta Roma ne parla. «Beh, effettivamente. Proprio stamattina a ora di pranzo mi sono fermato a piazza Barberini per mangiare qualcosa, insieme alla scorta. È venuto uno dei nostri, mi ha chiesto una foto e mentre andavamo via si è rivolto alla scorta e ha detto “curatelo bene questo, che nei prossimi mesi deve fare il Primo Ministro”». Altra smentita; ma conferma che la voce gira a turbina. Maurizio Landini potrebbe fare il partito del Lavoro.

In un panorama di scioglimento dei partiti, la voce si basa almeno su dei numeri – è alla fine l’unico che ha un serbatoio di voti cui attingere. E che voti! «Gli iscritti della Cgil sono 5 milioni, di cui il 51 per cento lavoratori dipendenti e 49 per cento pensionati. Il 17 per cento di quel 51 per cento ha meno di 35 anni», snocciola il segretario. D’altra parte, alla vigilia dell’incontro che i sindacati avranno a Chigi con il premier il 12, sotto la spinta emotiva dei dati Istat su un Italia al limite, è «consapevole delle difficoltà del prossimo futuro», ed è pronto «a scendere in campo per non lasciare il campo a nessuno». Il nessuno va letto come «destra».

Se di sicuro non pensa a fare un partito, e gli va creduto, l’uomo non è uno stupido, però non si sottrae al dire che questo è un sindacato che si colloca già su mobilitazioni politiche: «già a dicembre dell’anno scorso noi e la Uil abbiamo fatto uno sciopero generale».

Potremmo chiamarla, insomma, una svolta sottotraccia del sindacato. E se dovessimo trovare un punto in cui il segretario ha dato un segnale esterno in questo senso, basta ritornare a un mesetto fa. A una riunione che si è tenuta nel suo ufficio in Cgil.

Stanza al terzo piano, ariosa e tranquilla, non raggiunta dalla folla distruttrice che prese d’assalto la Cgil, con finestre aperte sul polmone di Roma, Villa Borghese. La riunione con un gruppo di consulenti doveva decidere come impostare l’evento di lancio del congresso della Cgil che si terrà a dicembre.

Da una borsa dei presenti esce la solita cartellina con tre fogli – una rapida occhiata ed è chiaro che la scaletta è sempre la stessa. Interventi vari, comizio finale del Segretario, insomma il solito incontro in sindacalese. Il segretario fa qualche domanda, guarda i consulenti, rifà qualche domanda e poi chiede «ma per voi va bene?». I consulenti dicono sì, ma senza impegnarsi. Il segretario scalpita. «Ma a questo incontro vengono tutti?», chiede, e la situazione svolta.

Qualcosa c’è lì che sveglia un po’ tutti – otto leader del centro e della sinistra hanno risposto all’invito di Landini che intende «chiedergli che ricette hanno in testa per affrontare la situazione». Si appassiona il segretario. «Non è un modo per coprire i nostri problemi, è il contrario. Anche noi abbiamo un grave problema di rappresentanza, il mondo operaio è frantumato, non siamo certo quel che eravamo. Ma se guardo ai partiti stanno come noi se non peggio», dice a questo punto col suo vocione di quando è entusiasmato, «mettiamoli al centro della sala, e chiediamoglielo, visto che hanno già accettato il nostro invito». «Ma vuoi solo quelli di centro e sinistra?» dice uno dei suoi con cautela. «Ah, certo. Io ho inviato a tutti i segretari di tutti i partiti il nostro documento congressuale, anche ai leader del centro destra, ma qui mi sembra logico che siedano solo i moderati e la sinistra». E così sia: una normale quasi-conferenza stampa per avviare il congresso, dopo un dieci minuti ha girato ed è diventata un nuovo format, dal titolo extrasindacalese: «Il lavoro interroga».

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