Maurizio Landini: “Io in campo ma senza un partito, non lascerò spazio alla destra”

Un mese dopo, nel palazzo vittoriano sede a Roma della Casa dell’Architettura, nel talk più singolare della stagione politica, otto leader – nell’ordine: Letta, Conte, Elly Schlein, Rosato, Speranza, Fratoianni, Calenda, e Acerbo del Partito della rifondazione comunista – a semicerchio davanti al segretario della Cgil, che gli chiede come sparo di partenza: «Noi abbiamo problemi con il consenso, ma tutto avrei immaginato meno che dopo la tornata elettorale stiate discutendo di cosa hanno votato quelli che sono andati alle urne, invece che discutere di perché due su tre italiani non ci sono andati».

Nello stordimento della calura, persino i giornalisti afferrano che qualcosa sta succedendo – che la messa cantata solita sindacale non c’è. I leader politici ci stanno: Letta parte tranquillo, alla fine del suo intervento ha già capito il cambio di tono; Conte ci dà dentro con la piattaforma sociale, dicendo che quella dei 5Stelle è come quella della Cgil; Schlein parla di diritti; Rosato difende il Jobs Act ma senza acredine, Speranza si muove in casa, e Calenda è il più divertito, prigioniero com’è fra Fratojanni e il comunista Acerbo, e come ringraziamento per l’invito solleva subito il voto in Europa sulla tassonomia verde che include il nucleare. (Il format va così bene che sarà ripetuto con altri soggetti politici convocati).

Ma se non c’è nulla di fondato nelle voci, perché, segretario, se ne parla tanto? «C’è un vuoto politico, una rottura fra lavoro e politica, ed è la prima volta, se ci si pensa. In Parlamento c’è sempre stata una rappresentanza anche del lavoro. Il nostro mondo ha bisogno di una rappresentanza, è chiaro. Del resto questa rottura è il tema del nostro Congresso». Nemmeno il Pd è dunque un ancoraggio sicuro? «Non è questo. Il tema ora sono le scelte. Se la guerra non si ferma entro l’anno andiamo incontro a una esplosione. Le scelte si devono fare ora, e sono tutte dentro la politica».

Questa del pesare in politica (più che farla) è in realtà il vero punto dolente di Landini. Coltiva da mesi il senso che il sindacato sia messo da parte, che non sia coinvolto in nessuna sede, e nemmeno rispettato. Discorso delicato che più che ai partiti porta dritto a Chigi e che bisogna seguire con una certa cautela. I 5 stelle sono in questo senso un buon punto di avvio.

I 5Stelle davvero hanno una piattaforma molto vicina a quella della Cgil: dal potenziale della loro crisi potrebbe emergere un reindirizzo di voti comuni? «Non ho molta consuetudine con i 5s, ma certo all’epoca di Conte abbiamo lavorato molto bene– lui ha fatto una serie di cose, come il blocco dei licenziamenti e varie misure sociali che si muovevano nella nostra direzione. Ma il cambio di governo ha cambiato tutto. Quello attuale non ci ascolta».

Gli ricordo che però all’inizio lui è stato molto favorevole a Draghi. «Certo. Sono stato tra chi non voleva andare a votare, e ho visto con favore che venisse messo in pista un uomo della sua autorevolezza, che per altro regge ancora oggi. Ma contro di lui, nel dicembre 2021 abbiamo fatto con la Uil uno sciopero generale, tutto politico. Infatti, non sta producendo riforme, o almeno quelle che vogliamo noi, in chiave sociale; si muove anzi in senso inverso. E non ci ascolta. Mai coinvolti, al massimo informati». Questo è il punto «l’ultima volta che siamo stati convocati è stato il due maggio, ed ora il 12. Questo è quanto».

Farebbe bene dunque il M5s a uscire dal governo? «Secondo me se escono e rimangono da soli, si mettono a rischio. E non vedo come fanno a non rimanere soli. Però capisco anche che sono cotti a fuoco lento». Il sottotesto di questa affermazione è che il governo non riuscirà invece a cuocere lui: «A settembre metteremo in campo mobilitazioni di tutti i tipi. Non lo lascio il campo a qualcun altro». E il qualcun altro, sia chiaro, hanno un nome e cognome: «Giorgia Meloni, Matteo Salvini». Più politica di così. 

LA STAMPA

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