Conte tentenna: il rebus fiducia

ANNALISA CUZZOCREA

La linea è contorta, talmente tortuosa che si fa fatica a seguirla fino in fondo, ma è questa: il Movimento non voterà la fiducia al Senato sul decreto aiuti, non può farlo perché al suo interno c’è un emendamento – quello sul termovalorizzatore di Roma – che i 5 stelle hanno chiesto in ogni modo di cambiare, di edulcorare, di ammorbidire, ma sul quale hanno ricevuto solo dei sonori «no». E quindi a Palazzo Madama, dove il voto di fiducia al governo e quello sul provvedimento sono – a differenza che alla Camera – contestuali, è molto probabile che i senatori grillini non siano in aula. Lasciando che la fiducia passi senza il loro apporto e che sul decreto non ci sia la loro firma.

Questo però, almeno è quello che sperano, non dovrebbe comportare la caduta automatica del governo. Perché anche se Draghi salisse al Quirinale e Mattarella chiamasse Conte per avere chiarimenti, quello che il leader del Movimento direbbe è che si tratta di una sfiducia legata a un provvedimento contingente e che per decidere definitivamente cosa fare il suo partito aspetterà la fine del mese: quando sarà pronto il decreto annunciato ieri dal premier ai sindacati su salari, costo del lavoro, caro-vita.

E quindi sì, il governo cammina su un dirupo, bendato, mentre il terreno gli frana sotto ai piedi. Perché – e non a caso il Pd è preoccupatissimo – non è affatto detto che una simile spiegazione possa bastare al Colle. Ma anche se fosse così, ci sono gli altri partiti della maggioranza, da Forza Italia, che ha già chiesto una verifica, alla Lega, che muore dalla voglia di avere le mani libere su ogni legge, che diranno: no, così non si può fare, o si è dentro o si è fuori.

Di tutto questo, i protagonisti sono forse consapevoli. Solo non pensano di avere alternative. E quindi andrà così, il Consiglio nazionale del Movimento 5 stelle convocato stamattina per decidere cosa fare, di questa esperienza di governo, del voto di fiducia di domani al Senato, della futura alleanza con il Partito democratico, sempre più difficile, sempre più in bilico. Andrà che la vicepresidente Alessandra Todde, il capogruppo alla Camera Davide Crippa, l’ex sindaca Chiara Appendino, spiegheranno tutte le ragioni per cui rompere adesso non si deve, non si può. Mentre la vicaria di Conte Paola Taverna e gli altri vice, Mario Turco, Riccardo Ricciardi, Michele Gubitosa, ripeteranno i ragionamenti fatti in tutte le call di questi giorni, e assunti in parte dallo stesso ex premier: «Settembre e ottobre saranno mesi molto difficili e noi non possiamo farci dissanguare per Draghi». E quindi, «l’unico modo per tentare di risalire nei sondaggi è uscire adesso e metterci all’opposizione fino alla fine della legislatura. Stando dentro, il crollo è inevitabile». Perché le rilevazioni degli ultimi mesi vedono il Movimento scendere di mezzo punto percentuale a settimana. «E andando avanti così – è l’avviso di uno dei fedelissimi di Conte – alle elezioni arriviamo al 5 per cento, se ci arriviamo. Poi certo possiamo sempre decidere di estinguerci prima. A questo punto sarebbe una soluzione».

Conte ascolterà tutti, ieri ha annunciato che solo stamattina avrebbe sciolto la riserva sul da farsi proprio per dimostrare la centralità del consiglio nazionale, ma la sua linea non potrà essere quella di una rottura immediata. Per due ragioni molto semplici: la prima è il rapporto con il Partito democratico, che serve anche per le prossime elezioni se si vuole avere qualche chance di vittoria nei collegi contro il centrodestra unito. Anche qui, i falchi dicono: «Ma non è vero che romperemmo, alla fine potremmo dare un appoggio esterno e mantenere l’alleanza comunque». Dal Nazareno però ieri è arrivato un sonoro: «Scordatevelo. Se adesso rompete il governo cade, si va al voto in autunno e l’unica a festeggiare sarà la destra di Salvini e Meloni».

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