La linea di Draghi (che rifiuta di guidare un «non governo»): se l’M5S non vota con la maggioranza, oggi sale al Quirinale

di Francesco Verderami

Il premier respinge lo scenario di un gabinetto balneare qualsiasi, esposto a ulteriori agguati e nuovi ultimatum. E chiederà a Mattarella di non rinviarlo alle Camere

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Il premier Mario Draghi con il presidente di Confindustria Carlo Bonomi

Dopo la telefonata con Conte, Draghi non si era soffermato più di tanto a capire se il leader grillino stesse davvero lavorando per convincere in extremis i suoi a dare la fiducia al governo, o se la sua fosse solo tattica. E siccome «più delle parole valgono i comportamenti», era deciso ad attendere l’esito del voto di oggi al Senato. Se il Movimento darà seguito alla decisione di uscire dall’Aula e non voterà insieme al resto della maggioranza il decreto Aiuti, il premier salirà al Quirinale e si dimetterà, formalizzando la richiesta che aveva già annunciato a Mattarella: non essere rinviato alle Camere.

Draghi rifiuta l’idea di gestire un «non governo», di trasformarsi nel premier di un gabinetto balneare qualsiasi, esposto negli ultimi mesi di mandato ad ulteriori agguati e nuovi ultimatum. D’altronde è consapevole di essere vissuto dalla sua maggioranza come un intralcio: «Se i partiti potessero…», ha detto l’altro giorno troncando la battuta. Chi lo ascoltava non ha avuto bisogno di sentire il resto della frase per intendere. Non è ancora chiaro come terminerà la legislatura, se il capo dello Stato chiederà a Draghi di restare a Palazzo Chigi per l’ordinaria amministrazione in vista delle urne. Ma per quanto il premier ritenga che le forze politiche non siano ancora pronte alle elezioni, non ha calcolato la rapidità che mostrano quando in ballo c’è la loro sopravvivenza.

Infatti i partiti hanno iniziato a guardare al dopo Draghi, mentre Draghi non si è ancora dimesso. Nel Pd già si erano tenuti dei colloqui informali, durante i quali il segretario Letta auspicava si arrivasse alle elezioni «almeno dopo il varo della Finanziaria», mentre altri teorizzavano fosse meglio «andare al voto prima, per catalizzare i consensi». Sapendo di avere poche possibilità di vincere, tentano almeno di pareggiare. Al punto che persino l’area da sempre ostile al premier sussurra che «se Draghi se la giocherà bene potrà tornare dopo le elezioni».

Sull’altro versante, i dirigenti più vicini alla Meloni hanno preso a fare i conti sui collegi, mentre i leader del centrodestra — come d’incanto — dopo un anno di liti furibonde hanno uniformato il tenore delle dichiarazioni. Ieri la differenza tra Salvini e Berlusconi sugli sviluppi della crisi era solo tattica. Se il Cavaliere alla Stampa aveva detto di essere favorevole a un altro governo Draghi senza M5S, è perché voleva tendere una trappola ai grillini: spingerli a rompere con il governo, lasciar credere che non avrebbero pagato dazio con le urne, per poi virare verso il voto.

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