I labirinti del Movimento e i pericoli alle porte

di Antonio Polito

Nel tira e molla tra le due linee, nel M5S viene fuori la non fiducia. La leadership di Conte ne uscirà sconfitta comunque, il governo rischia e il Paese anche di più

L’ultima volta che il dollaro valeva quanto un euro, avevamo vent’anni di meno. L’ultima volta che l’inflazione era al 6,8%, ne avevamo 36 di meno. Ma nella rincorsa «vintage» di quest’estate infernale, fatta di crisi e di caldo, i Cinquestelle potrebbero stabilire oggi un record di salto all’indietro. Mentre infatti solo i più anziani di noi possono ricordare la «non sfiducia», quell’espediente parlamentare che consentì la nascita nel 1976 del terzo governo Andreotti, bisogna andare al 1987 per trovare qualcosa di analogo alla «non fiducia»: un partito (allora la Dc) che si astiene nel voto sul governo di cui fa parte. Eppure oggi, salvo trattative dell’ultimo minuto, questo sarà l’esito della tormentata seduta di autocoscienza grillina.

L’arzigogolo prevede che: a) il Movimento non ritira i suoi i ministri; b) non apre la crisi formalmente perché non vota la sfiducia; c) ma esce dall’aula del Senato e non vota la fiducia.

Il paradosso è palese: una parte dei Cinquestelle, forte soprattutto tra i senatori, si è convinta che l’unica speranza di conservare qualche seggio dopo le prossime elezioni stia nell’uscire dal governo, sperando nel bagno rigenerante di una manciata di mesi all’opposizione.

Ma un’altra parte, nella quale si credeva militasse anche Conte, pensa invece che prendersi la responsabilità della crisi equivale ad aprire le porte al centrodestra, che ormai corre verso il voto anticipato nel timore che a qualcuno venga in mente di cambiare la legge elettorale. Nel tira e molla tra le due linee, ecco il coniglio dal cilindro: la non fiducia. La leadership di Conte, che anche ieri ha chiamato Draghi chiedendogli un po’ di spesa pubblica da esibire ai suoi, ne uscirà sconfitta comunque. Rompendo su un decreto chiamato «Aiuti», e accettando la radicalizzazione del Movimento, ne consegna le chiavi a Di Battista. Se non lo facesse, avrebbe perso l’ennesimo braccio di ferro, confermando l’accusa di essere un debole.

Scavare la fossa al governo e lasciarlo in vita è però impossibile. L’istituto della fiducia è il cardine delle democrazie parlamentari. Un governo è in carica solo se ha quella del Parlamento. Se chi gliel’ha data al momento della nascita la ritira, quel governo non c’è più. D’altra parte i calcoli dei più tattici, secondo i quali Mattarella rimanderebbe il governo Draghi alle Camere, dove riotterrebbe comunque, con o senza M5S, la fiducia, sono basati su premesse sbagliate. Sia per la nettezza con cui il premier ha escluso di poter guidare un governo diverso. Sia perché avrebbe il sapore di una pochade, e non è affatto detto che i protagonisti siano disposti a recitarla. Tutto si può chiedere a Draghi, tranne di fare il Fanfani VI. A pochi mesi dal voto, un governo dimissionario difficilmente si rimanda alle Camere.

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