Peccato Capitale: viaggio a Roma tra incendi, spazzatura, erbacce, cinghiali, buche e traffico impazzito

Mattia Feltri

«Barbiere, manicure, pedicure, tolette, bagno romano, massaggi»: la scritta sulla facciata déco della Casa del Passeggero ha l’ironia sfrontata, scanzonata di queste parti. Si arrivava a Roma, da lunghi viaggi magari notturni, spossanti, ci si ripuliva lì, ci si rendeva presentabili alla città dei cento campanili e dei palazzi di governo, la città del Santo Padre. La Casa del Pellegrino, fra la Stazione Termini e il Teatro dell’Opera, è chiusa da decenni. Dev’essere cascato qualcosa qualche tempo fa: un pezzo di cornicione o di intonaco, perché è stata parzialmente transennata, e le transenne misurano gli anni con la ruggine, sono le pareti precarie di un rifugio segnalato dal solito cumulo di coperte, vestiti, stracci, cartoni di vino, pacchetti di cracker, un toscano smangiucchiato, un libro di Puskin. Roma ha di buono che si riscatta con naturalezza, con un colpo di tacco: un libro di Puskin. La Casa del Passeggero ingloba uno dei quattro torrioni che delimitavano le Terme di Diocleziano, fu un granaio, un parcheggio, poi un ristorante e, a proposito di ristoranti, lì attorno è tutto un ristorante Nerone, un albergo Washington, cioè un evocativo portale per turisti, ingresso al parco giochi, e a sera inoltrata si saranno accumulati cartoni, sacchi, bidoni, le vestigia di un incessante saziarsi, di un andirivieni, cui parteciperanno gabbiani e topi: sventreranno, sparpaglieranno, e le macerie della sofferenza, del divertimento, degli uomini e degli animali si mischieranno, copriranno tutto, marciapiede, strade, aiuole, saranno il vestito di Roma vestita a festa.

L’altro torrione superstite è poche centinaia di metri più a nord, a piazza San Bernardo. Oggi è la chiesa di San Bernardo alle Terme, detta la chiesa senza finestre: prende la luce dall’oculo centrale della cupola. Un piccolo Pantheon, un gioiellino e se questa fosse una cartolina da Roma potremmo chiuderla qui: il sacro e il profano, l’anima e la pancia, lo sfarzo e la suburra. Ma ricordo di aver visto anni fa un documentario su come sarebbe diventata New York senza uomini: in pochi mesi sarebbe stata ricoperta di vegetazione, riconquistata dalle bestie, scossa da esplosioni e autocombustioni, cioè esattamente come Roma oggi, soltanto che a Roma gli uomini ci sono ancora. Partecipano al paesaggio. Il loro colore preferito è l’arancione delle reti di plastica da cantiere. Sono ovunque, circondano un tombino, una buca, ostruiscono un passaggio, stanno precariamente in piedi allacciate a ferri pendenti, ai ponteggi dei bonus facciate, un buon botanico potrebbe calcolarne l’età dall’altezza delle erbacce salite fra i buchi, io comincio a saperla calcolare dalla tonalità dell’arancione: in tre anni diventa bianco, ormai il colore di una rete da cantiere messa a protezione di un marciapiede vicino al Viminale nel novembre del 2019, quando una giornata eccezionalmente ventosa fece cadere alberi e pali e nel nostro caso un telaio in ferro per ospitare i cartelloni pubblicitari. Da allora la rete impallidendo tiene compagnia al nostro destino mortale.

Però non vorrei mollare così le erbacce. Intanto mi spiace per il dispregiativo, bisognerebbe ammirarle per la resilienza (a loro il termine si addice), sebbene a Roma abbiano vita più facile. A Roma ne crescono oltre mille e trecento specie diverse, pimpinella, acetosella, miglio, falsa rucola, cappero, tarassaco, finocchio, piante velenose, piante commestibili, piante medicinali, nessuno si cura di tagliarle, spuntano dal cemento e fanno ciò che vogliono, salgono a un metro, a due metri, ne ho viste circondare un’automobile senza targa sino alla maniglia delle portiere, ne ho viste ricoprire e ingoiarsi una cabina telefonica, ne ho viste crescere fino a ombreggiare scalinate – non sto esagerando, sono un camminatore e un compulsatore frenetico di Roma fa schifo, profilo Facebook che è la biografia psichedelica della città. Le abbiamo viste avvolgere le scale mobili del Galoppatoio di Villa Borghese, tappezzare gli scavi archeologici di Torre Argentina, dove venne ammazzato Giulio Cesare, le abbiamo viste salire fino a tre metri, gialle come paglia, rinsecchite al sole e prendere fuoco mattina e sera di questa torrida estate.

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