Ai confini del campo largo

È una strategia resa possibile anche dalla vaghezza della definizione “campo largo”. Chi deve esserci, infatti, nel campo largo? E chi creerebbe davvero problemi se invece non ci fosse? Il campo largo, insomma, non è il pentapartito: dove o si è in cinque o è un’altra cosa. È una formula così generica da poter assorbire (nascondere) qualsiasi defezione. Se Renzi non ci fosse, sarebbe sempre un campo largo? E se non ci fosse Conte? In realtà, il Pd ha semplicemente dato un nome nuovo ad una cosa antica: perché in politica non s’inventa quasi niente.

All’origine fu la «gioiosa macchina da guerra» targata Occhetto; poi divenne l’Ulivo (ricordiamolo: 18 formazioni politiche federate, nel 1996); quindi degenerò nell’Unione, per finire con la nascita del Pd «a vocazione maggioritaria». Oggi l’alleanza la si potrebbe chiamare «nuovo Ulivo»: sarebbe lo stesso, ma saprebbe di vecchio. Non la si potrebbe chiamare centrosinistra, invece: almeno fin quando punta ad ospitare i Cinque stelle, che – come è noto – non tollerano esser definiti di sinistra… La si potrebbe definire alleanza progressista, certo, ma resterà la definizione campo largo: e quanto largo dipenderà anche da come finirà il primo tempo del film in proiezione.

Enrico Letta resta comunque ottimista. Ieri ha fatto propria, impossessandosene, la cosiddetta agenda sociale messa in campo da Draghi, che ora è la ragion d’essere della presenza del Pd al governo: lavoro, salario minimo, lotta alla precarietà. «Chi determina la crisi, blocca tutto questo», ha spiegato, e i democratici non potranno mai allearsi con chi dall’opposizione spara contro quell’agenda: se il movimento di Conte oggi non vota la fiducia come ha annunciato, dunque, ognuno per la sua strada. E quella del Cinque stelle si farebbe ancor più in salita.

La direzione e lo stile di Letta invece non cambiano, fedeli ad un’impostazione che ha fin qui prodotto vittorie elettorali ed una nuova centralità. Sono bastate poche mosse: ancorare il Pd a Draghi senza ambiguità e nostalgie giallorosse, farne il “partito garanzia” della stabilità ed evitare polemiche e fughe in avanti, limitandosi ad aspettare gli errori degli avversari. La rielezione al Quirinale di Sergio Mattarella è stato il miglior esempio di questo stile da “temporeggiatore”. E radici non molto diverse hanno i tanti successi elettorali dovuti alla scelta di candidati sbagliati da parte del centrodestra. Anche oggi Enrico Letta temporeggia. Ma stavolta sa che il tempo della battaglia, dopo la scelta del Movimento cinque stelle, potrebbe esser vicino, più vicino di quel che continua a sperare…

LA STAMPA

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