Giuseppe Conte apre la crisi: “Autunno caldo”, profezia o minaccia?
«Non votiamo, usciamo dall’Aula». La giornata più lunga per il MoVimento 5 Stelle si conclude come era iniziata: con la decisione dell’Aventino “bis”. Solo che non votare il Decreto aiuti al Senato oggi- a differenza del meccanismo bizantino di Montecitorio che ha permesso ai grillini di separare il voto al governo con quello al provvedimento – per Mario Draghi significa togliere di fatto la fiducia al governo. Una “soluzione”, questa partorita in casa pentastellata, che rappresenta l’anticamera della crisi dell’unità nazionale. Eppure l’Azzeccagarbugli di Volturara Appula, nella notte di ieri, pensava di aver trovato dopo tanto tribolare la soluzione geniale: non votare la fiducia il Decreto Aiuti in Senato ma, allo stesso tempo, confermare la fiducia al governo.
SENATORI PASDARAN
Una “sintesi” istituzionalmente improbabile e sgangherata ma l’unico
modo, a suo avviso, per tenere insieme la linea rumorosa dei pasdaran
anti-draghiani – i vari Toninelli, Ricciardi e Airola, che lo tengono
sotto scacco grazie al feeling con la base – con quella di chi non
intende separarsi dalla cadrega fino all’ultimo giorno di legislatura,
dato che quasi impossibile che la rivedrà al prossimo giro. La sveglia,
però, ha infranto presto i sogni di gloria di Giuseppe Conte. Gli
schiaffoni giunti da Matteo Sal vini («Se una forza di maggioranza non
vota un decreto di maggioranza, fine, basta. Mi sembra evidente che si
vada a votare») e da Enrico Letta («Non è una nostra ripicca dire che se
cade il governo si va al voto. È nelle cose»), entrambi concordi con le
parole di Draghi («Non esiste un bis del mio governo»), hanno gettato
subito l’ex premier nello sconforto: disertare o astenersi oggi alvoto a
Palazzo Madama significherà far materializzare il voto anticipato in
piena crisi internazionale. Una responsabilità tutta nelle mani di chi è
rimasto con il cerino: lui stesso.
Le cinque ore mattutine di Consiglio nazionale del M5S sono trascorse così, senza una decisione ma con due linee di tendenza. Un altro Aventino, ossia non votare (la linea prevalente), e la scelta estrema: votare contro. In entrambi i casi, lo ha capito con lo scorrere delle dichiarazioni, sarà crisi di governo.
Per uscire dal trappolone che si è costruito da solo, ecco l’ideona a fine incontro con i suoi: digitare il numero di Mario Draghi. «Sento Draghi e vi aggiorno…», ha riportato l’Adnkronos. L’obiettivo della telefonata è stato quella di tentare l’ultima mediazione per evitare il salto nel buio a Palazzo Madama: una richiesta, disperata, di un impegno più preciso del premier sui nove punti inseriti nella lettera che gli ha consegnato. La risposta di mr. Bce è stata la stessa esplicitata in conferenza stampa: ci sono «significative convergenze» tra quei «punti» e l’agenda del governo. Di più non si può. Tradotto: niente extradeficit. Sarebbe un fuori sacco indigesto a Bruxelles che aprirebbe oltretutto un precedente impossibile da gestire con una Lega più che vigile sull’equità del premier. Il punto principale poi, al di là della buona volontà di Draghi, resta comunque: impossibile – per Draghi ma anche per il resto della maggioranza – accettare la “non fiducia” dei grillini e fare finta che non sia successo nulla.
RICHIAMO DELLA FORESTA
Così il pallino è tornato all’avvocato. Che fare, dunque? Votare alla
fine il decreto, spaccando definitivamente il M5S con la rottura
dell’ala più identitaria o rompere le larghe intese? Alla fine il
richiamo della foresta ha avuto la meglio. Anche se l’ex premier – come
ha fatto intendere – si è detto pronto a rinnovare la fiducia al governo
se il premier sarà chiamato in Parlamento a verificare i numeri della
sua maggioranza: ma solo se questo accetterà in toto i nove punti della
lettera.
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