Conte nel labirinto cerca una via d’uscita. “Ma io che devo fare?”

Federico Capurso

Tutti vogliono sapere cosa farà il Movimento 5 stelle oggi in Aula. Voterà la fiducia al governo Draghi o strapperà uscendo dalla maggioranza? Tutti lo chiedono a Giuseppe Conte. L’unico che può davvero saperlo. E lui, che dalla poltrona del suo studio passa la giornata tra riunioni in videocall e telefonate, risponde alla domanda dei suoi interlocutori con la loro stessa domanda: «Ma io che devo fare?» . Chiede consiglio, alla ricerca di una sfaccettatura ancora non osservata, nonostante il cuore di questa crisi sia sotto i riflettori da giorni. «Che parte faccio? Come ne esco in questa vicenda?». Domande che in fondo, però, hanno il pregio di offrire una risposta, seppur tremenda: neanche Conte lo sa.

A forza di rimuginarci su, nella testa dell’ex premier tutto si mescola. I pericoli di una rottura, i rischi del restare, le sensazioni personali, il recente passato. Le telefonate che ne scandiscono la giornata, a tratti, assomigliano a un flusso di coscienza. E in chi lo ascolta c’è l’impressione che sul piatto della bilancia del leader pentastellato sia finito anche il rapporto logoro e mai felice con Draghi, che ci sia una ferita ancora aperta e sanguinante, dal giorno in cui i due si sono alternati a palazzo Chigi. «Con Draghi in questi giorni ci siamo parlati tante volte», rivela Conte, ma sono visioni del mondo che restano distanti, quasi inconciliabili, anche nella gestione di questa crisi: «Draghi è un tecnico, non un politico – sottolinea –. E in questa partita non doveva scendere in campo e fare politica. Doveva mantenere il suo ruolo di premier tecnico, super partes».

È come se restasse ancora il sospetto fortissimo, in queste ore, di un gioco di sponda, tra il presidente del Consiglio e Luigi Di Maio, iniziato con la partita del Quirinale e mai finito. Anzi, quasi rafforzato nelle ultime settimane, tra la scissione decisa dal ministro degli Esteri e il tentativo di questi giorni di sfilare altri parlamentari al Movimento, usando il capogruppo alla Camera Davide Crippa come pietra angolare di una seconda scissione. Di Maio si dice sicuro, riunendo le sue truppe alla Camera, che Crippa e il drappello di circa venti deputati che lo segue avrebbero già deciso di mollare il M5S e appoggiare Draghi. I diretti interessati affidano a una nota, firmata da «fonti della Camera», la replica a brutto muso: «Quanto riferito dal ministro Di Maio non risponde al vero». In serata però Crippa riunisce i venti «governisti» a Montecitorio. Nel Movimento sale la tensione: «E se stessero decidendo di lasciarci domani mattina, prima del voto in Senato?».

È quello che si aspettava il ministro degli Esteri, nella speranza di spolpare il partito di Conte e affossare definitivamente la sua leadership, condannandolo all’irrilevanza politica. Così, in serata, il ministro degli Esteri torna ad avvertire i naviganti: «Veti e bandierine ci portano al voto anticipato». Anche Crippa, però, vuole ragionare, aspettare, capire cosa chiederà di fare Conte in Senato, dove la partita oggi avrà inizio: «Ascolteremo il discorso di Draghi in Aula – dice il capogruppo dei deputati M5S quando ormai è già buio fuori da Montecitorio -. Per me è chiaro che se aprirà ai principali temi posti all’interno dei nove punti da parte del Movimento, diventerà ingiustificabile non confermare la fiducia». Insomma, Crippa è costretto alle ipotesi. Sperava che un segnale dal leader sarebbe arrivato, invece tutto tace.

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