Borsellino, un mistero lungo 30 anni
Francesco La Licata
I misteri siciliani, che sono misteri italiani e in più d’una occasione si sono rivelati misteri internazionali, sono storie del potere della peggiore specie. Da Salvatore Giuliano in poi – per rimanere al contemporaneo – non c’è avvenimento che abbia ottenuto almeno una spiegazione ufficiale, se non un riscontro giudiziario. L’elenco sarebbe troppo lungo e si rischierebbe qualche dimenticanza: per saperne di più basterebbe sfogliare i giornali della nostra «meglio gioventù». Oppure consultare gli accurati, quanto inutili, atti parlamentari custoditi nella polvere degli archivi delle numerose Commissioni, raramente aperti al pubblico e solo dopo un numero di anni sufficiente a garantire l’impunità di presunti colpevoli mai condannati.
In questo panorama la storia di Paolo Borsellino «merita» un posto di assoluto rilievo perché contiene in sé tutti gli elementi del grande «affaire», concepito ed eseguito per rimanere insoluto o quantomeno relegato alla soluzione minimalista del «buono» ucciso per volontà del «cattivo», mafioso e crudele. E tre decenni di inchieste, processi, condanne, assoluzioni, revisioni e inchieste parlamentari non hanno dato nessuna certezza, anzi hanno prodotto un’unica certezza consacrata in sentenza: che le indagini sulla strage di via D’Amelio, 19 luglio 1992, rappresentano il più grande depistaggio della storia giudiziaria della Repubblica. E, ancora dopo trent’anni, non sappiamo perché è stato ucciso il giudice Borsellino.
Ma questa storia non è destinata all’oblio. Mai come in questo momento gode di una risonanza mediatica che difficilmente consentirà un’archiviazione indolore. E questo per merito dei figli di Paolo Borsellino, Fiammetta, Lucia e Manfredi che hanno portato pesantemente all’attenzione generale le precondizioni e il «contesto» cupo che hanno consentito l’isolamento del giudice e, quindi, l’eliminazione fisica di un ostacolo che dava fastidio non solo alla mafia delle giacche di velluto di Corleone ma a quella delle grisaglie delle segreterie di partito e delle stanze della finanza dei salotti buoni.
I figli di Borsellino hanno intrapreso, dopo anni di silenzio in ossequio all’educazione istituzionale del padre, un percorso di richiesta di giustizia «per amore della verità». Ma le loro richieste non sono grida scomposte e sete di vendetta. Fiammetta ha parlato a lungo nella sede appropriata, dopo l’inattesa ed esplosiva confessione del pentito Gaspare Spatuzza che rivelava l’esistenza del grande depistaggio: la costruzione a tavolino, da parte di magistrati e investigatori dell’epoca, di una falsa verità che (oltre a mandare all’ergastolo mafiosi, ma innocenti rispetto alla strage) impediva la ricerca di un movente (inconfessabile?) che apriva le porte di un potere ben più importante di quello gestito di Totò Riina.
Fiammetta è andata davanti ai giudici, sostenuta dai fratelli e dall’ostinato avvocato di parte civile, Fabio Trizzino, a dire semplicemente: se il depistaggio è provato (tanto da doversi rifare il processo) voglio sapere i nomi dei depistatori, anche i nomi dei magistrati, e perché è stato messo in atto. E ha ragione, Fiammetta. Un depistaggio, infatti, serve a proteggere l’identità di un colpevole nascosto o impedire che venga fuori un intreccio di collusioni e di illegalità. Normale, dunque, che la parte lesa faccia una simile richiesta non per vendetta ma «per amore di verità», come recita il libro che Fiammetta, Lucia e Manfredi hanno scritto affidandone la «tessitura» alla lucida competenza del giornalista Piero Melati.
È un prezioso documento, questo scritto. Perché racconta una parte inedita della dolorosa perdita della famiglia Borsellino. Racconta dell’assedio subito dalla signora Agnese, la moglie di Paolo, da parte delle cosiddette Istituzioni; di come tutto il falso affetto riservatole si concludesse puntualmente con la domanda «su cosa stava indagando Paolo»?
Già, perché è quello il punto critico: a chi avrebbe nuociuto quanto andava scoprendo il giudice? Perché Borsellino, reduce da colloqui con un pentito, disse che stava venendo fuori di tutto («Altro che Tangentopoli»). E perché i verbali delle audizioni dei magistrati della Procura di Palermo (28-31 luglio 1992) sono rimasti sepolti negli archivi di Palazzo dei Marescialli? Conoscere lo stato d’animo di Borsellino dopo la strage di Capaci, il suo totale isolamento per mano del suo capo, Pietro Giammanco, i dubbi sull’amico «che mi ha tradito», sul perché non riceveva risposta dal procuratore di Caltanissetta, Gianni Tinebra, a cui chiedeva di essere interrogato sulla morte dell’amico Falcone. Ecco conoscere tutto ciò, forse, avrebbe aiutato le indagini. Forse avrebbe potuto svelare l’incongruenza macroscopica di una strage imponente affidata ad un organizzatore ed esecutore (Vincenzo Scarantino, il pentito «inventato») di infimo livello.
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