Alleanze e fatti

di Francesco Verderami

Gli schieramenti sono poco coesi e sarà difficile che riescano a mettere a punto programmi comuni. Il pericolo è che il Paese vada incontro a un’altra crisi di sistema

Cosa devono attendersi gli italiani dopo aver assistito all’improvvida crisi del governo Draghi? Quale soluzione offriranno i partiti, che all’ombra del premier attendevano con ansia un ritorno al «primato della politica»? Il modo in cui si è messa in moto la macchina elettorale, a destra come a sinistra, testimonia un’approssimazione che è figlia di un’impreparazione collettiva. D’altronde il Parlamento ha saputo solo protestare per aver visto umiliate le proprie prerogative. È vero che le Camere sono state piegate sotto l’incalzare di decreti legge e di fiducie, però i partiti non hanno sfruttato il tempo a disposizione per mettersi d’accordo sulle necessarie riforme di sistema. E oggi nessuno appare pronto al primo scatto, cioè alla prova delle urne, che è il test con cui di solito si saggiano le capacità di affrontare la successiva prova di governo.

Il centrodestra formalmente si presenta compatto ai blocchi di partenza, rivelandosi infrangibile a ogni contraddizione, a ogni cambio di stagione, a ogni scissione, a ogni scontro per i seggi e per la premiership. Ma l’immutabile unità non riesce a nascondere un radicale rivolgimento dei rapporti di forza, che evidenza un’innumerevole serie di problemi e pone altrettanti interrogativi. Per dimostrare che non è una coalizione apparente, e dunque proporsi come un’alleanza capace di guidare il Paese, deve sciogliere nodi che non si limitano alle regole d’ingaggio tra partiti ma riguardano il futuro dell’Italia: la sua collocazione internazionale, la sua postura europea, la sua linea di politica economica.

Quando Giorgia Meloni avverte in ogni occasione la necessità di sottolineare l’ancoraggio all’Occidente, è perché si rende conto di dover dissipare dei dubbi. Per quanto la sua posizione in Parlamento sul conflitto scatenato dalla Russia in Ucraina sia stata di convinto sostegno alla linea di Mario Draghi, è chiamata ad illuminare evidenti zone d’ombra nella coalizione, dove la fedeltà atlantica risente di vecchie e nuove infatuazioni verso il regime di Putin: ne va della credibilità di chi legittimamente si candida a palazzo Chigi. È un passaggio dirimente ma non è l’unico. L’altro è il rapporto con l’Europa. Non è chiaro se la difesa degli «interessi nazionali» sarà declinata in modo conflittuale con l’Unione, dove lo scetticismo dei partner è conseguenza dell’euroscetticismo che attraversa il centrodestra. Che dovrà spiegare se in economia riproporrà l’antica ricetta della rivoluzione liberale o rinculerà verso una moderna forma di statalismo.

Se a due mesi dalle urne il centrodestra è una coalizione con «lavori in corso», dall’altra parte una coalizione non c’è e non ci sarà. Nel senso che il Pd — come ha spiegato il suo segretario — propone ad altre forze un mero accordo elettorale e solo perché «costretto» dall’attuale sistema di voto. Questo rassemblement di contrapposizione, che dovrebbe riunire partiti con visioni diverse, è l’uscita di emergenza a cui Enrico Letta è costretto dopo il fallimento del «campo largo». Il progetto di unire i democratici e i grillini era nato ai tempi del governo giallorosso, che copriva con la gestione di Palazzo Chigi la sua gracilità politica. Una volta venuto meno quel mastice, il rapporto si è rotto sul giudizio dell’azione di Draghi.

I democratici avevano due strade: costruire un’alleanza coerente di forze riformiste come forma di investimento per il futuro; oppure organizzare un cartello di partiti che si contrapponesse al «blocco sovranista e populista». Letta ha scelto una sorta di terza via. Immaginando in prospettiva che il suo Pd possa coprire in esclusiva l’area riformista, magari come prima forza nazionale, ha deciso di mettere insieme partiti, liste civiche e singole personalità con esperienze a volte contrapposte: dal capo di Sinistra italiana Nicola Fratoianni (che non ha mai votato la fiducia al governo Draghi) al leader di Azione Carlo Calenda (che punta ad un altro governo Draghi). Il risultato è che ancora oggi non c’è un accordo e non c’è nemmeno l’idea di varare un programma comune. Così non sarà facile convincere gli elettori.

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