Il crepuscolo della civiltà

Anche oggi, come e più di allora, crescono la paura del futuro e la precarietà economica, aumentano l’esclusione esistenziale e la disuguaglianza sociale. Anche oggi, come e più di allora, la politica parla di “protezione” nel modo più cinico, più spregiudicato, più velenoso. Non diremo la solita frase, corriva e insopportabile: chi semina vento, raccoglie tempesta. Sappiamo bene che l’integrazione di chi sbarca sulle nostre coste o valica le nostre frontiere in cerca di una vita migliore è difficile. Sappiamo altrettanto bene che gli esclusi e i diseredati della terra, sospinti fuori dal circuito della cittadinanza e della legalità, non possono che ingrassare le fila del crimine, comune o organizzato. E sappiamo ancora meglio che la convivenza tra i popoli, specie nel non più pingue Occidente, prima ancora che i nazional-sovranismi xenofobi europei l’hanno intossicata i fenomeni indotti dalla globalizzazione senza regole: il dumping salariale, la fine del lavoro, la crepa nel patto tra le generazioni e dunque la rottura del contratto tra Stato Sociale e capitalismo privato, cioè la crisi del Welfare e, in ultima istanza, il declino del liberalismo.

Queste cose le sappiamo tutte. Le abbiamo imparate e sperimentate nel nostro quotidiano. Ma questo disagio occidentale, questa solitudine rancorosa e frustata dell’uomo bianco, andrebbero mediate e curate dalla buona politica. Da troppo tempo, invece, le destre del Vecchio Continente fanno l’opposto. In Ungheria, dal pulpito del Tusvanyos Summer rumeno di mercoledì scorso, Orban dice che “il vero pericolo sono le migrazioni di massa” e che gli ungheresi “non vogliono mescolarsi ad altre razze”. In Italia, un minuto dopo la caduta del governo Draghi, Meloni rilancia i “blocchi navali” e Salvini cinguetta “clandestini e finti profughi, spacciatori e stupratori: dal 25 settembre tutti a casa!”. L’altroieri, nel suo fulminante “Buongiorno”, Mattia Feltri ha spiegato a entrambi, numeri alla mano, quanto sia pretestuoso l’allarme sulla presunta “invasione” e sull’inesistente aumento dei delitti commessi da immigrati.

Ma ormai il tema non è aritmetico, è politico. È miserabile usare ancora una volta il suolo, il “corpo” e infine il sangue come strumenti da campagna elettorale. È insopportabile negare un diritto sacrosanto come la cittadinanza ai bambini e ai ragazzi che sono nati e hanno studiato in Italia, evocando ancora una volta la farneticante teoria della sostituzione etnica. È orribile agitare anche stavolta davanti alle urne lo spettro dello straniero, alimentare l’ossessione per il colore della sua pelle, marcare la sua irriducibile e impronunciabile diversità di “negro”. Il tutto, di nuovo, per un pugno di voti. I partiti, tutti i partiti, abbiano un sussulto di dignità e di responsabilità. Questa sfida, che è insieme anche civile e morale, non può più essere raccontata come uno scontro tra chi dice “accogliamoli tutti” e chi urla “cacciamoli tutti”. Mai come su questo terreno la “complessità” è una chiave metodologica, non una clava ideologica.

Mi rammarica dirlo, e non voglio alimentare l’idea di una pregiudiziale anti-leghista. Ma anche in questa circostanza, mentre Meloni dice la cosa giusta («Non ci sono giustificazioni per questa brutalità, mi auguro che l’assassino la paghi cara») non fa ben sperare Salvini, che di fronte al corpo esanime di Alika sul marciapiede dà di questo immenso dramma una lettura esclusivamente securitaria, parlando di “certezza della pena” e di “telecamere di sorveglianza”. Come se, di fronte all’enormità della morte del “Gigante buono” di Civitanova il problema fosse questo. Su “noi e loro” non serve l’ennesima esasperazione ideologica, ma un’altra narrazione politica. In caso contrario, a forza di progressivi scostamenti di civiltà, celebreremo presto non la fine della Storia, ma il crepuscolo della Democrazia.

LA STAMPA

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