Civitanova: l’omicidio di Alika, il razzismo e la paura del futuro

di Aldo Cazzullo

«Se un nero avesse ucciso un bianco, non avreste fatto tutto questo casino». La mail viene da un lettore che scrive spesso. Ne sono arrivate altre che dicono più o meno la stessa cosa. Ora, coloro che scrivono al Corriere sono di solito persone colte, informate, avvertite del mondo. Usano un buon italiano (dettaglio non diffusissimo).

Appartengono a diverse estrazioni sociali, ma spesso sono borghesi che non vivono nel disagio, anzi. La loro paura del futuro si basa più sulle percezioni che sulla realtà. Tanti hanno ovviamente espresso sdegno e dolore per l’omicidio di Civitanova Marche. Ma se tanti altri hanno avuto invece una reazione incattivita, è segno che nella società italiana sta accadendo qualcosa di profondo, che sfugge a sociologi e sondaggisti.

La prima domanda da farci è questa: siamo di fronte a un omicidio a sfondo razziale? Preferiremmo rispondere di no; ma sarebbe sbagliato. Uccidere per futili motivi un uomo in pubblico — reato da ergastolo —, davanti ai telefonini che riprendono,è talmente irrazionale da far pensare che l’assassino abbia creduto di poter disporre della vita e del corpo che stava sotto di lui, come se appartenesse a un essere a lui inferiore. E se questo è accaduto, è perché il germe del razzismo è ormai tra noi. Che sia conseguenza anche di un’immigrazione incontrollata, o della sensazione di insicurezza, è un altro discorso. Ma ormai il germe c’è. E va combattuto. Da tutti. Per questo ogni strumentalizzazione politica della tragedia, all’inizio della campagna elettorale, non aiuta, anzi. Essere contro il razzismo dovrebbe essere una premessa comune a ogni partito, a chiunque partecipi alla vita pubblica.

È stato osservato che una parte della responsabilità dell’omicidio ricade su coloro che l’hanno filmato, anziché impedirlo. Se fossero intervenuti avrebbero salvato due vite: quella di Alika Ogorchukwu; ma pure quella di Filippo Claudio Ferlazzo, che ovviamente non sarà mai più la stessa. Resta da capire cosa rispondere al lettore che scrive: «Per quale motivo se uno di colore uccide un bianco la classe politica non esprime alcun orrore?». Si potrebbe obiettare che non è così, che altri delitti sono stati condannati e purtroppo anche strumentalizzati dai partiti.

Negli Stati Uniti il movimento «Black Lives matter» è diventato un attore della politica americana; e la giusta denuncia delle violenze della polizia è degenerata in provvedimenti assurdi, tipo togliere armi e fondi alle forze dell’ordine, con la conseguente crescita di crimini e insicurezza. Siamo ancora in tempo per evitare che la questione razziale diventi uno degli assi che dividono la politica italiana? È possibile trovare una via di mezzo tra la stupidaggine propagandistica della «sostituzione etnica» (in Italia gli stranieri sono meno del 10% della popolazione), e l’assurdità giuridica per cui chi si fa portare da una banda di criminali su un’isoletta in mezzo al Mediterraneo ha diritto a restare in Europa?

Uscire dalla trappola razziale, dagli stereotipi di un segno e dell’altro, si può e si deve. Altrimenti come raccontare il delitto dell’altro ieri a Monteforte Irpino, dove un nigeriano con un martello ha ucciso un commerciante cinese e ha ferito il suo cliente bulgaro?

L’osmosi tra l’Africa e l’Europa ci sarà. Non sarà un braccio di mare a interrompere la pressione demografica di un miliardo e mezzo di africani, quasi tutti giovani, su un continente invecchiato come il nostro, che di figli ne fa sempre meno. Ma questo fenomeno epocale va governato. Non possiamo farlo gestire a chi intende trarne profitto; quindi né agli scafisti, né ai razzisti. Né ai mercanti che fanno soldi sulla pelle dei poveri, né a chi lucra politicamente sulle paure dei cittadini.

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