Questa volta i cittadini vogliono essere rassicurati

di Beppe Severgnini

Ci sono elezioni segnate dalle illusioni, altre al contrario dalla delusione, dalla voglia di punire. Ma, in tempi difficili, le persone chiedono soprattutto conforto

Un’elezione, un sentimento. Si capisce a cose fatte: ma si capisce. I sentimenti prevalenti, nelle grandi scelte elettorali di questo secolo, sembrano tre: illusione, delusione, rassicurazione. I partiti e le coalizioni che l’hanno intuito per tempo hanno vinto, in Italia e non solo. Quelli che l’hanno compreso in ritardo hanno perso. Soltanto dopo, col senno di poi, hanno capito perché. Quali sono state le elezioni dell’illusione? Quelle dove la speranza contava più dell’ansia? Di certo il voto nel 2001: Silvio Berlusconi e la Casa delle Libertà sono riusciti a intercettare la voglia di cambiamento.

Le semplificazioni televisive hanno funzionato, l’ottimismo esibito ha convinto, i conflitti d’interesse sono stati ignorati. Chi sosteneva che l’Italia non avesse bisogno di un illusionista ha perso. I risultati di Forza Italia (29,4%) e della Lega Nord (3,9%) dimostrano come l’euforia, ventuno anni fa, fosse più potente della rabbia. Importante è la data: 13 maggio, quattro mesi prima dell’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono, che ha cambiato l’umore e le prospettive del mondo. Se nel 2001 avessimo votato in autunno, chissà come sarebbe andata a finire.

Altre elezioni piene di illusioni? Le Politiche del 2013 e le Europee del 2014, entrambe segnate da Matteo Renzi. La giovane età, la grinta e le proposte hanno convinto i moderati che fosse venuto il momento di affidare il cambiamento a una nuova generazione. Renzi e il Partito democratico hanno beneficiato degli umori portati dall’elezione di Barack Obama (2008, 2012): il vento politico, in Italia, soffia quasi sempre da Occidente. La coalizione di centro-sinistra nel 2013 ha vinto di misura. La conferma che avesse intercettato l’aria nuova è arrivata l’anno dopo: nelle Europee 2014 il partito guidato da Renzi — già a Palazzo Chigi — ha conquistato uno strabiliante 40,8% dei voti. Come quel giovane presidente del Consiglio sia riuscito a sprecare un tale capitale di consenso resta un mistero.

Ci sono, poi, le elezioni segnate dalla delusione, quelle in cui gli elettori intendono infliggere una punizione. Elezioni punitive sono state quelle del 2018. Votare il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Matteo Salvini è sembrato, a sedici milioni e mezzo di italiani, il modo migliore di esprimere il proprio fastidio. I leader delle due formazioni sostenevano, ovviamente, che avessero vinto le proposte e i programmi. La realtà è un’altra: quel voto è stato la sentenza sommaria dopo anni di accuse e denunce, moltiplicate dai social. La breve vita tumultuosa del governo giallo-verde ne è la prova.

Anche in questo caso, il voto in Italia ha trovato spunti e motivi all’estero. Soprattutto nel referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea (giugno 2016) e nelle elezioni presidenziali negli Stati Uniti (novembre 2016). Il successo di Brexit e l’ascesa di Donald Trump sono certamente — anche se non esclusivamente — legati allo scontento nei rispettivi Paesi. Un miscuglio di rivendicazioni, frustrazioni, fantasie e nostalgie si è sfogato nel voto. Di nuovo: l’esito burrascoso della presidenza Trump, e le difficoltà che sta incontrando la Gran Bretagna fuori dalla Ue, lasciano pensare che usare il voto come punizione non sia una buona idea. Spesso ne approfittano le persone sbagliate.

Siamo al terzo sentimento: la voglia di essere rassicurati. Dittatori e autocrati, per impossessarsi del potere e non lasciarlo più, offrono proprio questo: rassicurazione. In questo caso si tratta di un imbroglio, certo. Ma la rassicurazione è anche un’onesta moneta elettorale. È il motivo per cui la maggioranza degli americani, in momenti post-traumatici, ha scelto il repubblicano George W. Bush (2004) e il democratico Joe Biden (2020). È il sentimento che ha spinto gli elettori britannici a confermare Boris Johnson nel 2019, e quelli francesi a rinnovare la fiducia a Emmanuel Macron nel 2022. È la spiegazione dietro al gradimento costante di Mario Draghi e del suo governo (siamo un Paese smemorato, è vero, ma non al punto da essercene già dimenticati).

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