Basta riforme sempre “di parte”, adesso serve una costituente

MASSIMO GIANNINI

Silvio Berlusconi lo annuncia in pompa magna. Dal set televisivo di Villa San Martino, riaperto in occasione della corsa al voto del prossimo 25 settembre con la solita scenografia (scrivania da simil-lavoro, foto di famiglia e libri finti sullo sfondo) ci propinerà “una pillola al giorno”. Lo fa per noi, dichiara sui social network: cioè per “togliere il medico di torno”. In realtà le sue sono “poison pills”: non curano, ma avvelenano l’organismo già debilitato della nostra democrazia. È tossico il “tassapiattismo”, cioè la Flat Tax che fa pagare la stessa aliquota Irpef a un miliardario e a un povero cristo. Ma è ancora più tossico il “presidenzialismo”, inoculato a forza nelle vene della campagna elettorale non come progetto (ri)costituente che ottimizza il funzionamento della Repubblica, ma come corpo contundente che destabilizza l’istituzione che la presiede.

Il Cavaliere si indigna. Come sempre, i giornalisti di sinistra lo hanno travisato. E qui scatta la consueta schizofrenia nell’esegesi del Verbo. L’Unto dal Signore sostiene di non aver mai voluto attaccare Sergio Mattarella, che “sta sereno” al suo posto finché il settennato non sarà finito. I suoi cruciferi e turiferari, credendo di aiutarlo, lo smentiscono: secondo loro non ha detto nulla di scandaloso, se passa una riforma presidenziale è ovvio che un minuto dopo Mattarella si deve dimettere. Misteri della fede berlusconiana, sui quali è inutile soffermarsi. Quello che importa, adesso, è capire se e in che misura il presidenzialismo può essere utile al Paese, e quale uso vorrà farne la cosiddetta destra “di governo”, a prescindere dalla venefica farmacopea istituzionale messa a punto nei laboratori di Arcore.

Partiamo dal primo punto: con la crisi di sistema nella quale siamo precipitati praticamente dal ‘94, con 18 governi, 16 presidenti del consiglio e 2 presidenti della Repubblica costretti a un secondo mandato, una riforma presidenziale favorisce una maggiore stabilità ed una migliore efficienza della nostra democrazia? Qui la dottrina si divide. Sul piano teorico o accademico, non ha senso demonizzare questa forma di governo, che altrove e in forme diverse funziona da decenni. L’America è la più grande e la più antica democrazia del pianeta, la Francia è solo più piccola e più giovane. Ma anche in Italia, con la Costituente del ’46, autorevoli giuristi come Costantino Mortati proposero l’elezione diretta del presidente della Repubblica. La stessa cosa fecero, in anni più recenti, politici di estrazione diversa. Dai più contestati (Bettino Craxi, Francesco Cossiga) ai più stimati (Mario Segni, Arturo Parisi). Tutti dittatori in erba? No di certo.

Ha ragione Gustavo Zagrebelski, che nell’intervista al nostro Andrea Malaguti osserva: “di per sé” il presidenzialismo non è né buono né cattivo. Vero è che adesso anche chi l’ha inventato non se la passa bene (vedi Trump e l’assalto a Capitol Hill, o Macron senza maggioranza all’Assemblea Nazionale). Ma tornando all’Italia: a conferma del fatto che l’elezione diretta non può più essere un tabù, non siamo forse già scivolati da tempo dentro una “presidenzializzazione di fatto” del sistema politico? Da quando proprio Silvio è “sceso in campo”, non abbiamo accettato senza battere ciglio l’indicazione del candidato premier sulla scheda, senza capire che da quel momento in poi la Res Publica sarebbe già cambiata in modo irreversibile? Non abbiamo accettato e in fondo anche apprezzato la personalizzazione della politica e dei partiti, trasformati da organismi collettivi a strutture serventi di chi li comanda? E non è proprio da qui che è rifiorita anche in Italia la (mala)pianta populista, seminata dal Cavaliere, innaffiata a piccole dosi da Renzi e infine raccolta a piene mani dai Grillo e i Salvini?

Se tutto questo è vero, ora non ci resta che fare l’ultimo tratto di strada: passare dal presidenzialismo di fatto a quello di diritto. Riscrivere la Costituzione, e mutare la democrazia parlamentare in Repubblica presidenziale. Del resto, l’abisso tra elettori ed eletti va colmato. Il meccanismo della rappresentanza, ormai inceppato, va rivitalizzato. Il modello lo conosciamo e lo usiamo: è il “sindaco d’Italia”, quello mutuato dal voto nei comuni. È chiaro, è semplice, è utile. Dunque, non c’è un minuto da perdere. Discutiamo inutilmente di “Grande Riforma” dal 1979, anno in cui provò a lanciarla il giovane segretario del Psi, fresco di Midas. È ora di agire.

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