Il tramonto dell’era social, noia e solitudine
Paolo Crepet
Scrivo mentre il mondo – il pianeta intendo – sta conoscendo un’accelerazione enorme dell’uso dei social network. Che sarebbe più corretto chiamare a-social visto che tutto possono fare fuorché incrementare la socializzazione. Un paradosso imbarazzante: all’epoca dell’iper-connessione non siamo mai stati così soli. Penso con un misto di ironia e drammaticità al prossimo Natale quando milioni di cittadini regaleranno a se stessi e ai loro figli il “visore”, ovvero quella strana maschera da sub che permetterà all’umanità di rimanere per sempre comodamente seduta in poltrona vedendo 5 minuti di Prado, mezz’oretta di partita, un’amicizia sconosciuta, del sesso ardito perché inesistente. Alcuni lo chiamano incubo, altri business. Eppure, pensare che questo sia un futuro inalienabile sarebbe eccessivo. Fossi un stockholder di un’azienda che punta tutto sulla comunicazione digitale, cercherei di vendere le mie azioni. Per tre buone ragioni. La prima si chiama noia. Come ci ha insegnato la storia più recente, la chiave inglese è stata sostituita da un robot: tutto inizia dalla ripetitività del gesto e del prodotto. Anche l’arte è stata squassata da questo fenomeno, come ha scritto Walter Benyamin. La “distruptive innovation” si basa sul disamoramento e sulla comodità: si lascia la penna per la macchina da scrivere perché è più facile e meno noiosa. Perché mai la tecnologia digitale non dovrebbe subire lo stesso destino? A guardar bene sta già divincolandosi dalla piova distruttiva provando disperatamente altre innovazioni, che dureranno poco. Non sarà inesorabile per tutti: c’è chi percepirà anticipatamente la necessità di cambiare (le avanguardie) e chi sarà vittima di strascichi evolutivi per un tempo più lungo. In ogni caso la noia è rivoluzionaria perché obbliga al cambiamento tutti quelli che se ne accorgono.
La seconda ragione riguarda le nostre emozioni che sono, per definizione, incomprimibili. Ci abbiamo provato con le emoticon, ma siamo alla frutta. Anche il/la più algido/a deve ammettere oggi che il proprio mondo affettivo-relazionale non può essere riassunto in un cerchietto ebete o in un cuoricino con le alette. Ammettiamolo: il nostro grado di intelligenza emotiva sta scemando davanti ai nostri schermi. La gioia langue ad ogni età. Qualche neurologo ha misurato il fenomeno non esaltante del calo del QI individuale: è graduale, sembra inarrestabile. La chiamano “demenza digitale”: il nostro cervello delega sempre più alle macchine privandosi di skill strategici per la sopravvivenza. Più le abilità si fanno veloci, più sono superficiali, quindi il peso specifico del ragionamento diminuisce. Mi chiedo: se saremo sempre meno intelligenti e creativi, chi inventerà il nuovo stupore? Ultima ragione: la libertà. Una persona che è diventata dipendente dalla comunicazione digitale come può andare in un luogo della terra dove non c’è segnale? Semplicemente non si avventura, quindi anche gli orizzonti si accorceranno a meno di non riempire di ripetitori l’oceano Pacifico, quindi deteriorare ancor di più la salute del pianeta: è tutto nell’agenda dei movimenti “green”?
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