Il taglio dei parlamentari, una «riforma per caso» che spiazzò persino i suoi fan

di Francesco Verderami

Fraccaro disse: «Chi pensava che il Pd l’avrebbe fatta passare così? Il Movimento pensava che sarebbe rimasta una bandiera per la campagna elettorale»

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Con il taglio dei parlamentari il 25 settembre cambierà la storia della politica italiana. Ma quella che rappresenta a tutti gli effetti una svolta epocale non sarebbe che una «riforma per caso». Almeno, stando al racconto di un autorevole ministro, presente anche ai tempi del Conte due e testimone di un episodio che cambia radicalmente la narrazione sull’epopea giallorossa e sul provvedimento bandiera del grillismo. Il ministro ricorda come a metà di ottobre del 2019, dopo che il Parlamento aveva definitivamente approvato la riforma, al termine di una riunione di governo si fermò a parlare con l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Fraccaro: «Che errore avete fatto», gli disse riferendosi alla riduzione dei parlamentari. E il grillino rispose a bruciapelo: «Ma chi poteva immaginare che il Pd l’avrebbe fatto passare così».

È vero, in estate il «taglio» era stato il cuore dell’intesa tra il Movimento e i Democratici per formare un governo e sbarrare la strada delle urne a Salvini. Ma tutto lasciava supporre che — prima dell’ultimo passaggio della riforma in Parlamento — i dem avrebbero chiesto il varo dei correttivi necessari a garantire la tenuta del sistema: dalla modifica dei regolamenti per Camera e Senato fino alla legge elettorale proporzionale. Insomma, si sarebbe andati per le lunghe. E se non si fosse arrivati alla fine del percorso, i dirigenti di M5S — come riconosce oggi uno di loro — già ipotizzavano di sventolare quella bandiera nella successiva campagna elettorale, «un po’ come la sinistra aveva fatto per vent’anni con il conflitto d’interessi contro Berlusconi».

Invece no. Il Pd, che per tre volte aveva votato contro la riforma, alla quarta cambiò posizione. Non senza mal di pancia interni. In pochi in Parlamento si opposero a quella «mutilazione della Costituzione», come disse al Senato Bonino, allora anche a nome di Azione. Sarà stato per il fatto che all’epoca Conte era considerato il «punto di riferimento» del progressismo, ma nel Pd fu il solo Guerini — durante un dibattito politico in una riunione di governo — ad esprimere il suo dissenso. Certo in quella sede non si segnalò in suo sostegno il ministro del Sud Provenzano, compagno di partito, che l’altro giorno in un’intervista al Corriere ha di fatto sottolineato gli effetti negativi della riforma .

Il titolare della Difesa invece rese pubblica la sua posizione nell’estate del 2020, quando si avvicinava il referendum ma dei «correttivi costituzionali» e della proporzionale non c’era traccia: «Non c’è una nuova legge elettorale, non c’è un nuovo sistema bicamerale. Così com’è questa è solo una concessione alla demagogia». Il 21 settembre però la «demagogia» stravinse con il 70% di «sì»: all’epoca i tardivi ripensamenti di Berlusconi e Renzi, che condannarono la «riduzione della democrazia in Parlamento», furono sommersi dal coro (quasi) unanime a favore di una riforma che — per dirla con Di Maio — avrebbe fatto «risparmiare soldi» e garantito «leggi scritte meglio».

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