Paradossi di Cincinnato sul voto
Piergiorgio Odifreddi
Le cariche istituzionali, in primis quelle di parlamentare, sono in genere molto impegnative e poco remunerative, anche se i populisti tendono a far credere il contrario. Ma se così è, diventano allora molto sospetti l’ardente desiderio manifestato da coloro che brigano per entrare nelle liste elettorali dei partiti, e la stizza mal celata di coloro che ne sono esclusi, o vengono presentati in collegi in cui l’elezione non è sicura. Vien da pensare che i casi siano tre, non necessariamente esclusivi tra loro. O i candidati sono ingenui, e non sanno cosa li aspetta, immaginando che avranno soltanto tappeti rossi e macchine blu. O non hanno molto da fare, e persino il Parlamento può fornire loro una distrazione. O sono dei farabutti, e sperano di ricavare benefici illeciti dalle loro cariche, che li ripaghino dei costi e degli sforzi sostenuti per farsi eleggere.
Se si escludono gli ignari, gli incompetenti e i disonesti, gli unici politici non sospetti dovrebbero essere quelli che vengono tirati per i capelli, e fanno di tutto per “allontanare da sé quel calice amaro”. Ma ce ne sono pochissimi, che non a caso passano alla storia: a partire da Cincinnato, che nel 458 prima della nostra era non voleva affatto candidarsi. Fu eletto comunque, e costretto ad accettare: vinse la battaglia del Monte Algido, e dopo due sole settimane tornò ai campi dai quali era stato strappato a forza, anche se avrebbe potuto rimanere in carica come dittatore per sei mesi. Benché i Cincinnati siano merce rara, soprattutto nella nostra era, qualche rara eccezione esiste. Prima fra tutti quella di Alessandro Di Battista, al quale va almeno dato il merito di aver mantenuti saldi i princìpi dei grillini della prim’ora. A differenza di Luigi Di Maio e dei tanti altri pentastellati che, partiti per “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, hanno scoperto i vantaggi del rimanere ben oliati. Ma se in un partito si piange, negli altri non si ride: Pier Ferdinando Casini, ad esempio, è nel Palazzo da 40 anni e 10 legislature, ma il Pd l’ha gentilmente ripresentato, nonostante lui sia di centro-destra, e l’articolo 28 dello statuto del partito sancisca comunque che non si possa ricandidare chi è stato eletto per tre mandati consecutivi. Lo stesso vale per Piero Fassino e Dario Franceschini, 6 e 5 legislature.
Come riuscire a schiodare gli eletti dai loro seggi, facendo cosa gradita agli elettori? La prima cosa ovvia sarebbe impedire al Parlamento di fare le leggi elettorali, che vengono sistematicamente piegate agli interessi delle maggioranze al potere, anche se per fortuna l’eterogenesi dei fini prende spesso il sopravvento e le trasforma in boomerang. Ma ci vorrebbe un provvedimento autolesionista, che ovviamente nessun Parlamento si sogna di fare. L’attuale legge assegna un terzo dei seggi in maniera maggioritaria, e due terzi in maniera proporzionale, senza permettere agli elettori di esprimere la loro preferenza sui candidati imposti dai segretari dei partiti. Non ci si può stupire che un tale sistema sia foriero di guai, già venuti nella scorsa legislatura, che si ripeteranno nella prossima.
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