Meloni e la leadership
Lucetta Scaraffia
Non si può negare: per la prima volta, in una battaglia elettorale italiana una donna giganteggia sulla linea del fronte, Giorgia Meloni. Tutti, amici e nemici, devono fare i conti con lei, con la sua capacità di rispondere pacatamente ma fermamente ad accuse e anche a critiche ingiuriose, con la capacità di tenere in mano il suo partito e di guidarlo con una sicurezza e una coerenza che molti altri leaders le invidiano. Ma anche altre due donne di destra, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini, hanno rivelato un coraggio e una coerenza che quasi nessuno degli uomini che le circonda è solito dimostrare, abbandonando un partito che fa parte di una coalizione probabilmente vincente – e quindi dove avrebbero potuto facilmente ottenere incarichi di prestigio – perché entrambe contrarie alle scelte compiute dai suoi capi.
Salta agli occhi il fatto che le donne di sinistra al loro confronto sembrano un po’ sbiadite – a parte la ormai leggendaria Bonino – infilate nel gioco più per la politica delle quote che per meriti personali. Si è già detto – e condivido – che nei partiti di destra la competizione con gli uomini è più dura, e quindi chi ce la fa è perché dotata di grinta e capacità non comuni. Ma stupisce lo stesso vedere che nella sinistra le donne non si stufino mai di fare le ombre obbedienti di qualche potente – se non addirittura le mogli – e che non decidano mai di giocare in proprio, con la forza e la destrezza che questa scelta richiede. Se dunque Giorgia Meloni il 25 settembre risultasse vincitrice si potrebbe considerare questa una vittoria del femminismo? Sì, se facciamo riferimento all’emancipazionismo che ha portato le donne a combattere per il voto, per esercitare professioni tradizionalmente maschili, in sostanza per essere giudicate sulla base delle loro qualità personali e non per la loro adesione al ruolo tradizionale di sposa e madre. In questo senso Meloni è femminista, e lo è anche, in un certo senso, per le sue scelte di vita privata, ben lontane dal mito della famiglia tradizionale. Scelte che nessuno nel suo partito, che pure si dichiara conservatore, ha osato giudicare. La sua non sarebbe invece una vittoria femminista se consideriamo femminismo solo quel tipo di solidarietà fra le donne che dovrebbe – ma non lo fa mai – creare una rete di sorelle incompatibile con qualunque dimensione di rapporti di potere.
Giorgia Meloni non rappresenta una vittoria del femminismo solo se consideriamo femministe unicamente le esponenti politiche che si battono per l’aborto o per altri obiettivi legati alla sfera sessuale. Obiettivi di cui dobbiamo ammettere che si parla molto – anzi quasi solamente – mentre si parla molto meno di obiettivi altrettanto o forse ancora più cruciali come la parità salariale, l’occupazione femminile, l’assistenza alle madri lavoratrici. In tanti anni di governo della sinistra, e di ministri di sinistra per le pari opportunità, la situazione delle donne da questo punto di vista non solo non è migliorata ma sensibilmente peggiorata. Perché le donne italiane dovrebbero ora pensare che una madre lavoratrice quale è in realtà la Meloni non potrà fare di meglio? Magari non lo farà, ma non mi sembra illegittimo, dopo anni di delusioni, nutrire almeno qualche speranza. Se continuiamo a pensare che femministe siano solo le donne che corrispondono alla definizione fatta propria dalla sinistra, se neghiamo che possa essere considerata femminista una donna come Giorgia Meloni, che si è affermata con forza e bravura in un mondo di uomini senza farsi influenzare nei suoi progetti di vita privata, non siamo certo dalla parte dell’emancipazione femminile.
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