Astensionismo: il partito dei nuovi scettici

di Goffredo Buccini

Ventotto. C’è un numerino che dovrebbe essere soppesato meglio d’ogni altro da leader e partiti in corsa verso il 25 settembre. Più dei collegi da distribuirsi, più dei seggi contendibili secondo proiezione, più delle poltrone ministeriali da prenotare. Lo ha evidenziato questo giornale il 10 agosto, dando conto di un sondaggio Swg sul cosiddetto «allarme astensione»: il 28% del campione, quasi un italiano su tre, si dice persuaso che «votare non serva a nulla». Una resa. Al dato se ne accompagnano altri, del tutto coerenti.

Solo il 58% è davvero convinto di andare alle urne e addirittura un 13% si dichiara «disgustato dalla politica». Non sorprende che la maggioranza di questo popolo deluso e attonito abbia meno di 54 anni. La demografia ha il suo peso, spiegava sul Sole 24Ore Roberto D’Alimonte: i più anziani, memori di tempi in cui «partecipare era una abitudine radicata o addirittura un dovere» escono di scena e i giovani «sono meno interessati alla politica e tendono ad astenersi». Un atteggiamento quasi garbato, il loro, vista la consuetudine della politica a caricare sulle spalle delle nuove generazioni il fardello venturo del debito pubblico con i guai connessi, a penalizzare la formazione e la scuola, a dimenticare l’ambiente e, insomma, a infischiarsene del futuro appena prossimo.

Non siamo soli, naturalmente, in una disaffezione che, vista con gli occhi di Albert Hirschman, parrebbe quasi una exit del cittadino dalla partecipazione alla cosa pubblica, un’opzione di uscita esercitata dagli aderenti a quell’organizzazione complessa che chiamiamo Stato. È noto, del resto, che una malattia insidiosa s’annida da tempo nelle democrazie occidentali e nei loro meccanismi di rappresentanza (ricordando pur sempre che le autocrazie non hanno simili problemi a causa di afflizioni e di guasti ben peggiori). Alle legislative francesi di giugno ha votato meno del 48% degli aventi diritto, alle nostre del 2018 più del 72%. Alla tornata del 25 settembre superare la canonica soglia di astensionismo del 30% appare molto probabile, pur considerando un fisiologico recupero rispetto alle amministrative (che storicamente «scaldano meno» e infatti portano ormai alle urne poco più di un elettore su due).

Molte cause di successo per il partito del non-voto affondano nelle sempre crescenti diseguaglianze della nostra società. La povertà, che colpisce in misura quasi doppia i giovani rispetto agli anziani, si incrocia con l’abbandono scolastico e la disoccupazione, facendo segnare al Sud i valori maggiori: e il grafico dell’astensionismo elettorale ricalca esattamente quello della distribuzione della povertà per regioni d’Italia, come ha evidenziato Riccardo Cesari su lavoce.info.

Il disagio socioeconomico non disegna tuttavia per intero l’identikit di questo trasversale partito di scettici e disillusi, poiché l’affluenza nel 1948 era del 92% (quando di certo le condizioni materiali degli italiani erano molto peggiori) per poi scendere all’86% nel 1994 e al già ricordato 72% del 2018 (come si vede, con un significativo calo del 14% nell’ultimo quarto di secolo). Il quadro si completa, dunque, solo con il grande discredito che ha colpito i partiti politici, dalla crisi degli anni Ottanta-Novanta culminata in Tangentopoli sino ad oggi. Da molti anni, nelle graduatorie dell’istituto Demos, i partiti sono il fanalino di coda nei livelli di fiducia degli italiani: persino nel 2021, anno in cui, col governo Draghi in carica e una buona gestione della pandemia, tutte le principali istituzioni hanno fatto segnare un passo in avanti nella credibilità.

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