Una campagna elettorale senza la vita delle persone
Fateci caso: siamo ormai a ventotto giorni dal voto, e in questa mediocre campagna elettorale, in modo doloroso e quasi scandaloso, manca la vita. La vita quotidiana. La politica parla di temi generali, buttati nel tritacarne mediatico senza un pensiero. Non parla di persone. Non parla alle persone, quelle in carne ed ossa. Dal discorso pubblico manca il Paese Italia, più che la nazione italiana. Manca una riflessione vera sui bisogni, sulle cose minute, i comportamenti, i caratteri, i tic, le consuetudini della nostra società. Manca la conoscenza e soprattutto l’esperienza delle condizioni materiali in cui vivono le donne e gli uomini, i vecchi e i giovani. Molto più che l’analisi dei sondaggi, utili solo a costruire a tavolino proiezioni pseudo-ideologiche in un tempo in cui si celebra la morte delle ideologie. Mi scuserete se torno a Gramsci: i politici contemporanei ignorano la “folla”, in quanto è composta di singoli, non in quanto è popolo, idolo delle democrazie. “Amano l’idolo, fanno soffrire il singolo individuo… Non sanno rappresentarsi il dolore degli altri”.
Ora i partiti hanno scoperto l’emergenza del gas e il suo impatto sui bilanci delle famiglie e delle imprese, che ora è pesante e in autunno sarà devastante. Benvenuti nel mondo reale. Sarebbe stato un delitto chiudere gli occhi persino di fronte a un caro bollette del 340 per cento in un anno, e a un milione di nuclei familiari che rischiano di diventare morosi “per necessità”. Certo, poi ci tocca pure ascoltare le giaculatorie pelose di qualche reprobo che, dopo averlo affossato con un voto di non-fiducia, adesso corre a pregare in ginocchio San Mario Draghi perché faccia subito il miracolo, tirando fuori un’altra trentina di miliardi di aiuti naturalmente in deficit.
Ma questo fa parte della cinica ipocrisia di chi spera di vincere le elezioni del 25 settembre senza dover pagare dazio alla crisi energetica, e per questo pretende dal premier uscente che sia proprio lui a fare il lavoro sporco prima di accomodarsi alla porta. A prescindere dal prezzo folle del gas e dal costo del ricatto criminale di Putin all’Europa, per il resto si ha la mesta sensazione che la politica pensi il Paese, ma che non lo senta. Il riflesso di questa distanza, come abbiamo visto sono le liste elettorali: candidature piovute dall’alto, senza alcun legame con i territori, con le realtà sociali e locali, con la cittadinanza. Nomenklature che ormai riproducono quasi solo se stesse. “Siamo partiti, è normale che sia così”, obiettano i più. Ma pensiamoci un momento. Cosa sono, oggi, le correnti? Nei grandi partiti di massa della Prima Repubblica, ovviamente, di correnti ce n’erano tante. Si chiamavano così perché nascevano, dal basso, come “correnti di pensiero”. Nella vecchia Dc ci furono i dossettiani come Lazzati e La Pira, che incarnavano una concezione cristiana integrale della società. Iniziativa Democratica di Fanfani, che alla fine degli anni ’50 premeva per un’apertura al Psi. I Dorotei di Rumor e Taviani, che in nome della Chiesa chiedevano l’opposto. Forze Nuove di Donat Cattin e Pastore, in cui si riconosceva il mondo del lavoro e il sindacato. I Morotei che invocavano il compromesso storico e l’Alleanza Popolare di Gava, Piccoli e Forlani che voleva il ritorno al grande centro cattolico. Persino nel Pci, dove vigeva il centralismo democratico, c’erano i Miglioristi di Napolitano, Chiaromonte e Macaluso, più inclini alle istanze moderniste e filo-occidentali, e gli Ingraiani come Magri, Pintor e Rossanda, più vicini al movimento studentesco, al femminismo, all’ambientalismo. Ad ognuna di queste formazioni corrispondevano ispirazioni e aspirazioni differenti, anche se coerenti con il partito di appartenenza. Dov’è il “pensiero”, nelle correnti di oggi? Cosa rappresentano, sul piano ideale e culturale? Nulla. Sono solo incarichi, funzioni e quote di potere da spartire.
Ma lo specchio ancora più impietoso di questo abisso tra elettori ed eletti è l’inchiesta che il nostro giornale sta conducendo in alcuni luoghi-simbolo della Penisola. Dai bagni lussuosi del Twiga alle spiagge dolenti di Lampedusa, dai cantieri navali di Monfalcone alla grande ex fabbrica fordista di Mirafiori. Nella globalizzazione e nella frammentazione del nostro tempo liquido, è ormai chiaramente impossibile parlare di “classi sociali”. Ne restano giusto frammenti, ormai quasi privi di coscienza e destino. Nella migliore delle ipotesi, viene fuori una società disincantata, stanca di grancasse e promesse, che non crede più a niente e non vota nessuno. Nella peggiore, emerge un’umanità tradita, che credeva nel riscatto e chiedeva protezione, e non avendola avuta oggi è pronta a votare “per disperazione”. Come scrive Giovanni Orsina: li hanno provati tutti, e tutti hanno fallito, a questo punto tanto vale che proviamo anche Meloni e vediamo come va.
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